IX. Tutti coloro i quali per diritto modo si occupano di filosofia corrono il rischio che resti celato altrui il loro proprio intendimento; il quale è che di niente altro in realtà essi si curano se non di morire e di essere morti. Ora, se questo è vero, sarebbe certamente strano che uno per tutta la vita non avesse l’animo ad altro che alla morte, e poi, quando la morte, com’è naturale, arriva, – che è ciò appunto a cui da tanto tempo aveva posto l’anima e lo studio, – allora se ne rammaricasse. E Simmia, ridendo: [b] – Per Zeus, disse, o Socrate, tu mi hai fatto ridere che proprio non ne avevo nessuna voglia!
Perché penso che gli uomini, a udire codesto, crederanno sia molto giusto dire dei filosofi – e massimamente lo diranno i miei compaesani – che in verità coloro che fanno professione di filosofia sono come dei moribondi; né mostrano di ignorare che sono ben meritevoli costoro di patire tal sorte. -E direbbero proprio la verità, o Simmia; solo, non è vero che se ne rendano conto. Infatti non sanno né perché siano come moribondi, né perché siano degni di morte e di quale morte, quelli che sono veramente filosofi. [c] E perciò, disse, ragioniamo fra noi e lasciamo dire la gente. Crediamo che la morte sia qualche cosa? – Certamente, rispose Simmia. – E altra cosa crediamo che ella sia se non separazione dell’anima dal corpo? e che il morire sia questo, da un lato, un distaccarsi il corpo
dall’anima, divenuto qualche cosa esso solo per se stesso; dall’altro, un distaccarsi dal corpo l’anima, seguitando a essere essa sola per se stessa? o altra cosa dobbiamo credere che sia la morte, e non questo? – No, ma questo, disse. – E allora considera bene, o amico, se dunque anche tu hai la stessa opinione che ho io. Perché da quello [d] che dirò potremo farci, credo, un’idea più chiara di ciò che stiamo ricercando. Pare a te sia proprio di un vero filosofo darsi pensiero di quei tali che si dicono abitualmente piaceri, come, per esempio, del mangiare e del bere? – No affatto, o Socrate, disse Simmia. – E dei piaceri d’amore? – Nemmeno. – E le altre cure del corpo credi tu che le reputi pregevoli il filosofo? Così, per esempio, acquisto di belle e speciali vesti, di belli e speciali calzari, e gli altri abbellimenti del corpo, credi tu siano cose che il filosofo abbia in pregio o no se non per quel [e] tanto che stretta necessità lo costringa a usarne? – Mi pare che le abbia in dispregio, disse, chi sia filosofo veramente. – In generale dunque non pare a te, disse, che la occupazione di tale uomo non sia rivolta al corpo, e anzi si tenga lontana da esso quanto è possibile, e sia invece rivolta all’anima? – Mi pare. – E dunque anzi tutto è chiaro che il filosofo, in tutte codeste cose sopra [65a] dette, cerca di liberare quanto più può l’anima da ogni comunanza col corpo a differenza degli altri uomini. E’ chiaro.
– E’ così, o Simmia, come dicevi, la gente crede che chi non prova piacere di tali cose né in alcun modo vi partecipa, reputi senza pregio la vita, e che anzi abbia come una sua inclinazione a morire chi non si cura minimamente dei piaceri che provengono dal corpo. – Tu dici perfettamente la verità.