«Il volto si sottrae al possesso, al mio potere. Nella sua epifania, nell’espressione, il sensibile, che è ancora afferrabile, si muta in resistenza totale alla presa. Questo mutamento è possibile solo grazie all’apertura di una nuova dimensione. Infatti, la resistenza alla presa non si produce come una resistenza insormontabile, come durezza della roccia contro cui è inutile lo sforzo della mano, come lontananza di una stella nell’immensità dello spazio. L’espressione che il volto introduce nel mondo non sfida la debolezza del mio potere, ma il mio potere di potere. Il volto, ancora cosa tra le cose, apre un varco nella forma che per altro lo delimita. Il che significa concretamente: il volto mi parla e così mi invita ad una relazione che non ha misura comune con un potere che si esercita, foss’anche godimento o conoscenza. Ma è così che l’epifania dell’infinito è espressione e discorso. L’essenza originale dell’espressione e del discorso non risiede nell’informazione che fornirebbero su un mondo interno e nascosto. Nell’espressione un essere si auto-presenta. L’essere che si manifesta assiste alla propria manifestazione e quindi fa appello a me. Questa assistenza non è il neutro di un’immagine, ma una sollecitazione che mi riguarda con la sua miseria e la sua Maestà. Parlarmi significa superare in ogni istante ciò che vi è di necessariamente plastico nella manifestazione. Manifestarsi come volto significa imporsi al di là della forma, manifestata e puramente fenomenica, presentarsi m un modo irriducibile alla manifestazione, come la rettitudine stessa del faccia a faccia, senza la mediazione di nessuna immagine nella sua nudità, cioè nella sua miseria e nella sua fame. Nel Desiderio si confondono i movimenti che vanno verso la Maestà e l’Umiltà d’Altri. L’espressione non irradia come uno splendore che si diffonde all’insaputa dell’essere irradiante — ciò che forse costituisce la definizione della bellezza. Manifestarsi assistendo alla propria manifestazione equivale ad invocare l’interlocutore e ad esporsi alla sua risposta e alla sua domanda. L’espressione non si impone né come una rappresentazione vera, né come un atto. L’essere offerto nella rappresentazione vera resta possibilità d’apparenza. L’impossibilità di uccidere non ha un significato semplicemente negativo e formale; la relazione con l’infinito o l’idea dell’infinito in noi la condiziona positivamente. L’infinito si presenta come volto nella resistenza etica che paralizza il mio potere e si erge dura ed assoluta dal fondo degli occhi senza difesa nella sua nudità e nella sua miseria. La comprensione di questa miseria e di questa fame instaura proprio la prossimità dell’Altro. Il mondo che mi invade quando mi impegno in esso non può nulla contro il «libero pensiero» che sospende questo impegno o addirittura lo rifiuta interiormente, capace di vivere nascosto. L’essere che si esprime si impone, ma appunto facendo appello a me con la sua miseria e la sua nudità — con la sua fame — senza che io possa restare sordo al suo appello. Così, nell’espressione, l’essere che si impone non limita ma promuove la mia libertà, facendo nascere la mia bontà. L’ordine della responsabilità in cui la gravità dell’essere, nella sua ineluttabilità, spegne ogni sorriso, è anche l’ordine in cui la libertà è invocata in modo così ineluttabile che il peso irremissibile dell’essere fa nascere la mia libertà. L’ineluttabile non ha più l’inumanità del fatale, ma la serietà severa della bontà».
(E. Lévinas, Totalità e infinito, trad. it. Di S. Petrosino, Jaca Book, Milano 1980, pp. 85-86)