
Il mondo è mia rappresentazione
A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, I, 1
“Il mondo è la mia rappresentazione”: ecco una verità che vale in rapporto a ciascun essere vivente e conoscente, anche se l’uomo soltanto è capace di accoglierla nella sua coscienza riflessa e astratta: e quando egli fa veramente questo, la meditazione filosofica è penetrata in lui. Diventa allora per lui chiaro e certo che egli non conosce né il sole né la terra, ma sempre soltanto un occhio, che vede un sole, una mano, che sente una terra; che il mondo, che lo circonda, non esiste se non come rappresentazione, vale a dire sempre soltanto in rapporto ad un altro, a colui che lo rappresenta, il quale è lui stesso. Se mai una verità può venire enunciata a priori, è proprio questa: perché essa è l’espressione di quella forma d’ogni possibile ed immaginabile esperienza, che è più universale di tutte le altre, più del tempo, dello spazio e della causalità; dato che tutte queste presuppongono appunto quella. E se ciascuna di queste forme, che noi abbiamo riconosciute tutte come altrettanti particolari modalità del principio di ragione, vale solo per una particolare classe di rappresentazioni, la divisione in oggetto e soggetto è invece forma comune di tutte quelle classi, è quell’unica forma sotto la quale qualsivoglia rappresentazione, di qualsiasi natura, astratta o intuitiva, pura o empirica, è possibile e pensabile. Nessuna verità è dunque più certa, più indipendente da ogni altra, meno bisognosa di una prova, di questa: che tutto ciò che esiste per la conoscenza, cioè questo mondo intero, è solamente oggetto in rapporto al soggetto, intuizione di chi intuisce, in una parola: rappresentazione. Naturalmente questo vale, come per il presente, così per ogni passato e per ogni futuro, per ciò che è più lontano come per ciò che è vicino: perché vale anche per il tempo e lo spazio, nei quali soltanto tutto viene distinto. Tutto quanto appartiene e può appartenere al mondo, ha inevitabilmente per condizione il soggetto ed esiste solo per il soggetto. Il mondo è rappresentazione. […]
Solo dunque dal punto di vista indicato, ossia in quanto è rappresentazione, noi consideriamo il mondo in questo primo libro. Che, tuttavia, questa considerazione, nonostante la sua verità sia arbitraria, risulta evidente a ciascuno in virtù dell’intima riluttanza che egli prova a concepire il mondo soltanto come sua mera rappresentazione; anche se a questo concetto egli non può certo mai sottrarsi.
Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1971, vol. XIX, pagg. 600-601
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Dal fenomeno alla cosa in sé
A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, I, 18
In effetti, il senso tanto cercato del mondo, che mi sta unicamente dinanzi come mia rappresentazione, oppure il passaggio da esso, come pura rappresentazione del soggetto conoscente, a quel che può essere ancora oltre di ciò, non si potrebbe assolutamente mai trovare, se l’indagatore medesimo non fosse nient’altro che il puro soggetto conoscente (alata testa di angelo senza corpo). Ma in quel mondo egli ha le proprie radici, vi si trova, cioè, come individuo, ossia il suo conoscere, che è la condizione dell’esistenza del mondo intero come rappresentazione, si opera però sempre mediante un corpo, le cui affezioni, come si è mostrato, sono per l’intelletto il punto di partenza dell’intuizione di quel mondo. Per il puro soggetto conoscente, in quanto tale, questo corpo è una rappresentazione come tutte le altre, un oggetto fra oggetti: i suoi movimenti, le sue azioni non sono, sotto questo aspetto, conosciute da lui diversamente dalle modificazioni di tutti gli altri oggetti intuitivi: esse gli sarebbero egualmente estranee e incomprensibili, se il loro senso non gli fosse per avventura svelato in un modo del tutto diverso. Altrimenti, vedrebbe svilupparsi la propria azione con la costanza di una legge naturale sui motivi che le si offrono, proprio come le modificazioni degli altri oggetti sono regolate da cause, stimoli, motivi. Ma non comprenderebbe l’influsso dei motivi più di quanto comprenda il nesso di ogni altro effetto, che gli appaia, con la rispettiva causa. Egli continuerebbe allora a chiamare una forza, una qualità, un carattere a piacere, l’intima, per lui incomprensibile essenza di quelle manifestazioni ed operazioni del suo corpo e non spingerebbe oltre lo sguardo. Ma le cose non stanno così: al soggetto del conoscere, che appare come individuo, è data la parola dell’enigma: e questa parola è volontà. Questa, e questa sola, gli dà la chiave per comprendere il suo proprio fenomeno, gli manifesta il significato, gli mostra l’intimo meccanismo del suo essere, del suo agire, dei suoi movimenti. Al soggetto della conoscenza, il quale per la sua identità col corpo si presenta come individuo, questo corpo è dato in due modi del tutto diversi: è dato come rappresentazione nella intuizione dell’intelletto, come oggetto fra oggetti, e sottomesso alle leggi di questi; ma è dato contemporaneamente anche in un modo tutto diverso, ossia come quel qualcosa direttamente conosciuto da ciascuno, che la parola volontà esprime. Ogni vero atto della sua volontà è immediatamente e immancabilmente anche un moto del suo corpo: egli non può volere realmente l’atto, senza accorgersi insieme che esso appare come moto del corpo. L’atto volitivo e l’azione del corpo non sono due diversi stati oggettivamente conosciuti e collegati dal legame di causalità, non stanno tra di loro nella relazione di causa ed effetto: sono invece un tutto unico, ma si danno in due modi affatto diversi: nell’uno direttamente, e nell’altro mediante l’intuizione per l’intelletto. L’azione del corpo non è altro se non l’atto del volere oggettivato, ossia penetrato nell’intuizione.
Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1971, vol. XIX, pagg. 625-626
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Schopenhauer, Istinto sessuale e peccato originale
A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, par. 60
La conservazione del corpo mediante le sue stesse forze è un così minimo grado dell’affermazione della volontà, che se ci si fermasse volontariamente a questo, noi potremmo ritener cessata, con la morte del corpo, anche la volontà che in esso si manifestava. Ma già la soddisfazione dell’istinto sessuale va oltre l’affermazione della nostra esistenza, la quale empie un sí breve spazio di tempo, e afferma la vita oltre la morte individuale, per un tempo indefinito. La natura, sempre vera e conseguente, e in questo punto addirittura ingenua, ci disvela apertamente l’intimo significato dell’atto generativo. La nostra coscienza, la vivacità dell’istinto, c’insegna che in codesto atto s’esprime la più risoluta affermazione della volontà di vivere, pura e senza ulteriore aggiunta (come per avventura sarebbe la negazione d’altri individui); e così nel tempo e nella serie causale, ossia nella natura, appare quale effetto dell’atto una nuova vita: di contro al generatore viene a porsi il generato, diverso da quello nel fenomeno, ma in sé, nell’idea, identico ad esso. È quindi per codesto atto che le generazioni dei viventi si collegano l’una con l’altra in un tutto, e si perpetuano. La generazione è, per ciò che tocca il generante, semplice espressione e simbolo della sua risoluta affermazione della volontà di vivere, per ciò che tocca invece il generato, essa non è punto la cagione della volontà che in lui si manifesta, non conoscendo la volontà in sé né vera causa sostanziale, né effetto; bensì è, come ogni causa, soltanto l’occasione pel manifestarsi di codesta volontà in un dato tempo. In quanto cosa in sé, non è la volontà del generante diversa da quella del generato: ché unicamente il fenomeno, e non la cosa in sé, è soggetto al principium individuationis. Con quell’affermazione che va oltre il nostro corpo, fino alla produzione fenomenica di un corpo nuovo, sono anche dolore e morte, in quanto appartenenti al fenomeno della vita, novellamente affermati: e la possibilità della redenzione, che può venir da una più perfetta capacità di conoscere, è in tal caso proclamata infeconda. Qui sta la profonda ragione della vergogna onde si cela il traffico generativo. Questo concetto è rappresentato miticamente nel dogma della dottrina cristiana, secondo il quale noi tutti siamo partecipi del peccato di Adamo (che evidentemente non era se non la soddisfazione della voglia sessuale), e per esso andiamo soggetti a soffrire e morire. Con ciò quella dottrina va oltre il modo di vedere fondato sul principio di ragione, e penetra l’idea dell’uomo; l’unità della quale viene ricostituita dal suo frazionamento negl’innumerevoli individui, mediante il vincolo della generazione che tutti li riunisce. Vede così da un lato ogni individuo come identico ad Adamo, al rappresentante dell’affermazione della vita, e in questa qualità destinato al peccato (peccato originale), al dolore, e alla morte: dall’altro lato, la conoscenza dell’idea le fa apparire ogni uomo come identico al Redentore, a quegli che rappresenta la negazione della volontà di vivere, e sotto questo rispetto partecipe del sacrificio di Lui, per merito di Lui redento, e salvato dai vincoli del peccato e della morte, ossia del mondo (Epist. ai Romani, 5, 12-21).
A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Laterza, Bari, 1968, vol. II, pagg. 432-433
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Schopenhauer: la vita pendolo tra dolore e noia
A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione
Ogni volere proviene da un bisogno, cioè da una privazione, da una sofferenza. La soddisfazione vi mette un termine; ma per un desiderio che viene soddisfatto, ce ne sono dieci almeno che debbono esser contrariati; per di più, ogni forma di desiderio sembra non aver mai fine, e le esigenze tendono all’infinito: la soddisfazione è breve e avaramente misurata. Ma l’appagamento finale non è poi che apparente: ogni desiderio soddisfatto cede subito il posto ad un nuovo desiderio: il primo è una disillusione riconosciuta, il secondo una disillusione non ancora riconosciuta. Nessun voto realizzato può dare una soddisfazione duratura e inalterabile; è come l’elemosina che si getta a un mendicante, che gli salva la vita oggi per prolungare i suoi tormenti sino all’indomani. Finché la nostra coscienza è riempita dalla nostra volontà, finché ci abbandoniamo all’impulso dei desideri con la loro alternativa di timori e di speranze, finché, in una parola siamo soggetti del volere, non ci saranno concessi né felicità duratura né riposo. Inseguire o fuggire, temer la sventura o anelare alla gioia, è in realtà la stessa cosa; l’inquietudine di una volontà sempre esigente, in qualunque forma si manifesti, riempie ed agita incessantemente la coscienza; ora, senza tranquillità, nessun vero benessere è possibile. […]
Già nella natura incosciente, costatammo che la sua essenza è una costante aspirazione senza scopo e senza posa; nel bruto e nell’uomo, questa verità si rende manifesta in modo ancor più eloquente. Volere e aspirare, questa è la loro essenza; una sete inestinguibile. Ogni volere si fonda su di un bisogno, su di una mancanza, su di un dolore: quindi è in origine e per essenza votato al dolore. Ma supponiamo per un momento che alla volontà venisse a mancare un oggetto, che una troppo facile soddisfazione venisse a spegnere ogni motivo di desiderio: subito la volontà cadrebbe nel vuoto spaventoso della noia: la sua esistenza, la sua essenza, le diverrebbero un peso insopportabile. Dunque, la sua vita oscilla, come un pendolo, fra il dolore e la noia, suoi due costitutivi essenziali. Donde lo stranissimo fatto, che gli uomini, dopo ricacciati nell’inferno dolori e supplizi, non trovarono che restasse, per il cielo, niente all’infuori della noia.
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La favola dei porcospini (in Parerga e paralipomena)
Alcuni porcospini, in una fredda giornata d’inverno, si strinsero vicini, vicini, per proteggersi, col calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto, però, sentirono le spine reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l’uno dall’altro. Quando poi il bisogno di riscaldarsi li portò nuovamente a stare insieme, si ripeté quell’altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro fra due mali. finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione.
Così il bisogno di società, che scaturisce dal vuoto e dalla monotonia della propria interiorità, spinge gli uomini l’uno verso l’altro; le loro molteplici repellenti qualità e i loro difetti insopportabili, però, li respingono di nuovo l’uno lontano dall’altro. La distanza media, che essi riescono finalmente a trovare e grazie alla quale è possibile una coesistenza, si trova nella cortesia e nelle buone maniere.
A colui che non mantiene quella distanza, si dice in Inghilterra: keep your distance! − Con essa il bisogno del calore reciproco è soddisfatto in modo incompleto, in compenso però non si soffre delle spine altrui. − Colui, però, che possiede molto calore interno preferisce rinunciare alla società, per non dare né ricevere sensazioni sgradevoli.
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Le quattro nobili verità (catvāri-ārya-satyāni)
«Oh monaci, il Tathāgatha, il Venerabile, il Perfettamente risvegliato, ha messo in moto presso Vāraṇasī, a Isipatana (Sarnath), nel Parco delle gazzelle, l’incomparabile ruota della Legge (dhammacakka), che non può essere ostacolata da alcun asceta o brāhamana o deva o Māra o Brahmā né da chiunque altro al mondo – la ruota della Legge, cioè l’annunciazione, l’esposizione, la dichiarazione, la manifestazione, la determinazione, la chiarificazione, l’esposizione dettagliata delle Quattro nobili verità. E di quali quattro? Della nobile verità del dolore (duḥkha-satya), della nobile verità dell’origine del dolore (samudaya-satya), della nobile verità della cessazione del dolore (nirodha-satya), della nobile verità della via che porta alla cessazione del dolore (mārga-satya).»
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L’amore è compassione
A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, § 67
Abbiamo veduto come dall’oltrepassamento del principium individuationis venisse, nel grado minore, la giustizia, e nel maggiore la bontà vera e propria dell’animo, la quale ci si mostrò come puro, ossia disinteressato amore per gli altri. Dove quest’amore si fa perfetto, rende l’individuo estraneo e il suo destino affatto pari al nostro: più in là non si può andare, non essendovi ragione di preferire l’altrui individuo al nostro. Può nondimeno la massa degli individui estranei, il cui benessere o la cui vita siano in pericolo, prevalere sui riguardi del bene individuale. In tal caso il carattere asceso all’altissima bontà e alla perfetta generosità sacrifica in tutto il suo bene al bene dei più: così periva Codro, così Leonida, così Regolo, così Decio Mure, così Arnoldo di Winkeried, così ciascuno, che volontariamente e consapevolmente per i suoi, per la patria va a morte sicura. Alla medesima altezza sta chiunque di buon animo affronti dolore e morte per l’affermazione di ciò che all’umanità intera giova ed a buon diritto spetta, ossia per verità generali e importanti, e per l’estirpazione di grossi errori. Così periva Socrate, così Giordano Bruno. così trovarono tanti eroi della verità la morte sul rogo, tra le mani dei preti. […]
Quel che adunque bontà, amore e nobiltà posson fare per altri, è sempre nient’altro che lenimento dei loro mali; e quel che per conseguenza può muoverle alle buone azioni e opere dell’amore, è sempre soltanto la conoscenza dell’altrui dolore, fatto comprensibile attraverso il dolore proprio, e messo a pari di questo. Ma da ciò risulta che il puro amore (agape, caritas) è, per sua natura, compassione.
A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Laterza, Bari, 1968, vol. II, pagg. 491-492
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L’arte come liberazione
A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, I, 38
Nella contemplazione estetica abbiamo ritrovato due inseparabili elementi: la conoscenza dell’oggetto, non come cosa singola, ma come idea platonica, cioè come forma permanente di tutta questa specie di oggetti; e la coscienza del soggetto conoscente, non come individuo, ma come soggetto della conoscenza puro, libero dalla volontà. […]
Finché dunque la nostra coscienza è riempita dalla nostra volontà, finché siamo abbandonati all’impulso dei desideri, col suo perenne sperare e temere, finché siamo soggetti del volere, non ci è concessa duratura felicità né riposo. Che noi andiamo in caccia o in fuga, che temiamo sventura o ci affatichiamo per la gioia, essenzialmente è la stessa cosa: la preoccupazione della volontà con le sue continue esigenze, sotto qualsiasi aspetto, riempie e agita senza posa la coscienza; e senza pace nessun reale benessere è mai possibile. Il soggetto del volere è così senza tregua legato alla volgente ruota di Issione, attinge sempre col vaglio delle Danaidi, è Tantalo che in eterno si strugge.
Quando però una causa esteriore, o una disposizione interna ci trae all’improvviso fuori dall’infinita corrente del volere e sottrae la conoscenza alla schiavitù della volontà, e quando l’attenzione non è più rivolta ai motivi del volere, ma percepisce le cose sciolte dal loro rapporto col volere, ossia le considera senza interesse, senza soggettività, in modo puramente oggettivo, immergendosi tutta in esse, in quanto esse sono mere rappresentazioni e non motivi: allora sopraggiunge, improvvisa e spontanea, quella pace che, sempre dapprima cercata sulla via del volere, ognora sfuggiva, e noi siamo allora perfettamente felici. È quello stato senza dolore, che Epicuro lodò come il massimo bene e come condizione degli dèi: perché noi siamo, in quell’istante, liberati dal vile impulso della volontà, e celebriamo, noi forzati lavoratori della volontà, il nostro giorno di festa: la ruota di Issione si arresta.
Questo è appunto lo stato, da me più sopra descritto come necessario per la conoscenza dell’idea in quanto pura contemplazione, assorbimento nell’intuizione, smarrimento di sé nell’oggetto, oblio di ogni individualità, abolizione della conoscenza legata al principio di ragione, che afferra soltanto relazioni; è lo stato, in cui immediatamente e inseparabilmente il singolo oggetto intuito si eleva all’idea della sua specie, l’individuo conoscente si eleva a puro soggetto del conoscere libero dalla volontà, ed entrambi, in quanto tali, non si trovano più nella corrente del tempo e di tutte le altre relazioni. È indifferente, allora, se il sole che tramonta si veda da un carcere o da un palazzo.
Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1971, vol. XIX, pagg. 676-678
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La musica
A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, I, 52
L’oggettivazione adeguata della volontà sono le idee (platoniche); suscitare mediante rappresentazione di oggetti particolari (le opere d’arte non sono infatti mai altro) la conoscenza di queste (e ciò è possibile solo con una adeguata modificazione nel soggetto conoscente) è il fine di tutte le altre arti. Tutte, infatti, oggettivano la volontà mediatamente, cioè per mezzo delle idee; e dato che il nostro mondo non è se non il fenomeno delle idee nella pluralità, attraverso le forme del principium individuationis (la forma della conoscenza possibile all’individuo in quanto tale); ne deriva che la musica, la quale oltrepassa le idee, è del tutto indipendente anche dal mondo fenomenico, semplicemente lo ignora, e in un certo modo potrebbe continuare ad esistere anche se il mondo non esistesse più: cosa che non si può dire delle altre arti. La musica è infatti oggettivazione e immagine dell’intera volontà, tanto immediata quanto il mondo, anzi, quanto le idee, la cui pluralità fenomenica costituisce il mondo degli oggetti particolari. La musica, dunque, non è affatto, come le altre arti, l’immagine delle idee, ma è invece immagine della volontà stessa, della quale anche le idee sono oggettità: perciò l’effetto della musica è tanto più potente e penetrante di quello delle altre arti: perché queste esprimono solo l’ombra, mentre essa esprime l’essenza. […]
In tutta questa trattazione intorno alla musica mi sono sforzato di mostrare che essa esprime, con un linguaggio universalissimo, l’intima essenza, l’in sé del mondo, che noi, partendo dalla sua più limpida manifestazione, pensiamo attraverso il concetto di volontà, e l’esprime in una materia particolare, cioè con semplici suoni e con la massima determinatezza e verità; del resto, secondo il mio punto di vista, che mi sforzo di dimostrare, la filosofia non è nient’altro se non una completa ed esatta riproduzione ed espressione dell’essenza del mondo, in concetti molto generali, che soli consentono una visione, in ogni senso sufficiente e applicabile, di tutta quell’essenza; chi pertanto mi ha seguito ed è penetrato nel mio pensiero, non troverà tanto paradossale, se affermo che, ammesso che si potesse dare una spiegazione della musica, completamente esatta, compiuta e particolareggiata, riprodurre cioè esattamente in concetti ciò che essa esprime, questa sarebbe senz’altro una sufficiente riproduzione e spiegazione del mondo in concetti, oppure qualcosa del tutto simile, e sarebbe così la vera filosofia.
Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1971, vol. XIX, pagg. 690-691
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L’ascesi
A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione
La vita è paragonabile a una via circolare, coperta, fuorché in qualche tratto, di carboni ardenti, e che noi dobbiamo percorrere; gli illusi, confortati dalla freschezza del tratto su cui si trovano, e che si vedono vicino, seguitano a percorrerla. Ma chi, riuscendo a veder oltre il principium individuationis, riconosce la natura della cosa in sé o del tutto, non è più capace di simili conforti; vede che dappertutto è lo stesso e se ne va. La sua volontà si rivolge: non afferma più la propria essenza; la nega. Il fenomeno, in cui si manifesta il rivolgimento, è il passaggio dalla virtù all’ascesi…Il primo passo nell’ascesi, o negazione della volontà, è una libera e perfetta castità, che nega questo affermarsi della volontà oltre la vita individuale…L’ascesi si manifesta inoltre nella povertà volontaria e intenzionale: essa non sorge per accidens, in quanto ci si spoglia dei propri beni per addolcire le sofferenze altrui; ma ha per fine se stessa, e deve servire di costante mortificazione della volontà…Pratica il digiuno, la macerazione…per abbattere sempre più…quella volontà in cui ravvisa e detesta l’origine della travagliata esistenza sua e del mondo. La morte, infine, quando viene a distruggere la manifestazione di una tale volontà, ch’egli aveva già da tempo con atto di libera negazione uccisa nella sua essenza, è da lui salutata con gioia, e accolta festosamente come una liberazione sospirata.
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L’ascesi e la noluntas
A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, I, 71
Ciò che viene universalmente supposto come positivo, ciò che noi chiamiamo l’ente, e la cui negazione è espressa nel concetto del nulla nel suo significato più generale, è appunto il mondo della rappresentazione, che io ho indicato come oggettità e specchio della volontà. E questa volontà e questo mondo siamo poi anche noi stessi, e al mondo appartiene la rappresentazione in generale, come uno dei suoi aspetti: forma di tale rappresentazione sono spazio e tempo, quindi tutto ciò che da questo punto di vista esiste deve essere posto in un “dove” e in un “quando”. Negazione, soppressione e conversione della volontà significa anche soppressione e scomparsa del mondo, che la rispecchia. Non vedendo più la volontà in questo specchio, invano ci domandiamo dove si sia rivolta, e ci lamentiamo allora perché essa non ha più né “dove” né “quando”, ed è svanita nel nulla.
Se fosse possibile per noi un punto di vista rovesciato, i segni si invertirebbero e comprenderemmo che ciò che per noi è l’ente è il nulla, e il nulla è l’ente. Sino a che, però, noi medesimi siamo la volontà di vivere, il nulla può
da noi essere conosciuto solo negativamente, in quanto l’antico principio di Empedocle, che il simile può essere conosciuto soltanto dal simile, ci esclude ogni possibilità di conoscenza, come, al contrario, si fonda su quel principio la possibilità di tutta la nostra conoscenza reale, ossia il mondo come rappresentazione, o l’oggettità della volontà. Il mondo è infatti l’autoconoscenza della volontà.
Se tuttavia si volesse ancora insistere nel pretendere in qualche modo dalla filosofia una cognizione positiva di ciò, che essa può esprimere solo negativamente, come negazione della volontà, non avremmo altra possibilità che richiamarci a quello stato, di cui hanno fatto esperienza tutti coloro, che sono pervenuti alla totale negazione della volontà, che ha avuto i nomi di estasi, rapimento, illuminazione, unione con Dio, e così di seguito; ma questo stato non può essere chiamato una vera e propria conoscenza, perché non ha più la forma del soggetto e dell’oggetto, ed è inoltre accessibile solo all’esperienza personale e incomunicabile.
Noi, invece, che ci atteniamo al campo della filosofia, non possiamo che accontentarci della conoscenza negativa, paghi di aver toccato il confine estremo della positiva. Abbiamo riconosciuto nella volontà l’essenza in sé del mondo, e in tutti i fenomeni del mondo niente altro che l’oggettità della volontà; abbiamo seguito questa oggettità dall’impulso inconscio delle forze oscure della natura sino alle più lucide azioni dell’uomo, non vogliamo certo arretrare dinanzi alla conseguenza, che con la libera negazione e con la rinuncia della volontà vengono soppressi anche tutti quei fenomeni e quel continuo incalzare e spingere senza fine e senza sosta, in tutti i gradi dell’oggettità, nel quale e pel quale il mondo consiste, viene soppressa la varietà delle forme, che di grado in grado si succedono, viene totalmente soppresso, con la volontà, il suo fenomeno, vengono ancora soppresse le forme generali del fenomeno, tempo e spazio, e finalmente la prima forma fondamentale di esso, soggetto e oggetto. Nessuna volontà: nessuna rappresentazione, nessun mondo.
Dinanzi a noi non resta in verità che il nulla. Ma ciò che si ribella contro questo dissolversi nel nulla, la nostra natura, e proprio nient’altro che la volontà di vivere, che è noi stessi, come è il nostro mondo. Il fatto che noi abbiamo tanto in orrore il nulla, non è se non un’altra manifestazione che noi avidamente bramiamo la vita, che nient’altro siamo se non questa volontà, che nient’altro conosciamo se non essa. Ma rivolgiamo lo sguardo dalla nostra miseria e limitatezza verso coloro, che hanno superato il mondo e nei quali la volontà, pervenuta alla piena conoscenza di sé, ha ritrovato se stessa in tutte le cose e quindi ha liberamente rinnegato se stessa; verso coloro, che ormai attendono soltanto di vedere svanire col corpo l’ultima traccia della volontà, che lo anima; allora, in luogo dell’incessante incalzare e spingere, in luogo del perenne passaggio dal desiderio al timore e dalla gioia al dolore, in luogo della speranza mai appagata e mai spenta, di cui è costituito quel sogno che è la vita di ogni uomo che ancora vuole, ci appare quella pace, che sta più in alto di ogni ragione, quella totale quiete dell’animo, simile alla calma del mare, quel profondo riposo, imperturbabile sicurezza e serenità, il cui semplice riflesso nel volto, come l’hanno rappresentato Raffaello e Correggio, è un completo e sicuro vangelo: solo la conoscenza è rimasta, la volontà si è dissolta. E noi volgiamo lo sguardo con profonda e dolorosa nostalgia a quello stato, vicino al quale si mostra in piena luce, per contrasto, la miserevolezza e perdizione del nostro. Eppure questa considerazione è la sola che ci possa consolare durevolmente quando da un lato abbiamo riconosciuto che il dolore insanabile l’affanno senza fine sono essenziali al fenomeno della volontà, al mondo, è dall’altro vediamo che con la soppressione della volontà si dissolve il mondo, e che dinanzi a noi non rimane che il vuoto nulla. In tal modo, dunque, considerando la vita e la condotta dei santi, che invero raramente ci è dato di incontrare nella nostra esperienza, ma che ci vengono posti sotto gli occhi dalle loro storie e, col suggello dell’intima verità, dall’arte, dobbiamo discacciare la tetra impressione di quel nulla, che ondeggia come ultimo termine in fondo ad ogni virtù e santità e che noi temiamo, come i bambini le tenebre, e non già, come fanno gli indiani, eluderlo con miti e parole prive di senso, come il riassorbimento in Brahma o il Nirvana dei buddisti. Noi vogliamo piuttosto dichiararlo liberamente: ciò che rimane dopo la totale soppressione della volontà è certo, per tutti coloro che della volontà sono ancora pieni, il nulla. Ma al contrario per coloro nei quali la volontà si è spontaneamente rovesciata e rinnegata, questo nostro universo tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, è il nulla.
Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1971, vol. XIX, pagg. 717-719
3 pensieri riguardo “Schopenhauer: breve antologia di passi scelti”