METAFISICA DELLO SMARTPHONE (BYUNG-CHUL HAN “LE NON-COSE”)
Byung-chul Han, Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale
Un caro saluto ai miei studenti della quinta. Oggi ci occupiamo di un tema che vi sta particolarmente a cuore: lo smartphone. Ne abbiamo parlato spesso in classe. E ogni volta è come evocare uno spettro onnipresente. Perché mentre lo evoco con le parole, dal mio “non-pulpito di clamante nel deserto”, lui è già lì tra le tue mani, se siedi agli ultimi posti, oppure è pronto, disponibile, occhieggiante, sotto il banco o nella tasca dei pantaloni. Ti chiama e tu non riesci a proprio a separartene. A volte non ti ricordi nemmeno perché lo hai afferrato. Sta lì e basta. L’hai afferrato perché non potevi farne a meno e le dita, più o meno unghiute, già corrono sullo schermo liscio. Digito. Quid? Nihil maxime. Ego iustus digito. Digito ergo sum. Avete capito? Traduco dalla lingua dei padri, non si sa mai: “Digito. Che cosa? Niente di particolare. Io digito e basta. Digito, dunque sono.” Digitare è diventato atto fine a se stesso. Il contenuto di quel che digito, che cerco, che vorrei dire, passa in secondo piano. Un po’ come il marciare per un maratoneta: non importa dove o con chi. Marciare e basta. Tuttavia, una differenza c’è e non di poco conto: il maratoneta ha un fine ulteriore: vincere la maratona. Il digitante, in quanto tale, digita e basta. Il suo diventa una sorta di statuto ontologico-esistenziale, un modo di essere. Attraverso il dito, che rappresenta il prolungamento della mente e, talvolta, dell’intenzionalità cosciente, esplora possibilità, ovvero si virtualizza. Ma le possibilità, come sappiamo, non sono fini in sé… Tante porte aperte senza sapere esattamente dove e perché andare – porte spalancate da non si sa chi – sono possibilità che rischiano di collassare su se stesse. Spesso diventano abitudini e allora di porte se ne aprono solo alcune, sempre le stesse, alla fine. E dietro le porte, niente. Da un servitore multifunzione non ti puoi aspettare l’indicazione di uno scopo. Quello devi essere tu a mettercelo. Ma quando la mente pende lì, naufragando nel virtuale, gli scopi, già evanescenti di per sé – denaro, apparenza, successo, ego, ego, insomma, mezzi truccati da scopi – ebbene, essi dileguano. Ed è allora che scopri, forse, che gli scopi, quelli veri, è qualcun altro a metterceli, quel “non si sa chi” cui accennavo prima. Ma che cos’è questo “non-si-sa-chi” se non l’“anonimato” elevato a sistema di potere e controllo e lo strumento assunto a scopo? Questa è l’essenza della “tecnica” come insegna Martin Heidegger, che, a Dio piacendo, studieremo più in là. Ma, insomma, un’immagine veloce veloce posso fornirvela pure ora: avete presente quei film di fantascienza distopica in cui le macchine prendono il controllo del mondo e impongono il loro orizzonte di pensiero binario e violento ad un’umanità ridotta in condizione schiavile? Ecco… scegliete voi il titolo del film o del serial… Mentre digiti sei libero, è vero. Libero della libertà di giocare all’interno della sfera: hai presente quella palla di vetro con dentro babbo natale e la slitta e il paesino e la neve finta che cade quando la agiti? Solo che, in questo caso, noi non agitiamo un bel niente. Al massimo “ci agitiamo”. Senza la durezza della realtà a farci da contrappunto, senza la sfida del “volto dell’Altro” (espressione coniata da un altro grande filosofo novecentesco, Emmanuel Lévinas), senza ostacoli da superare, noi non siamo realmente liberi. Per questo, sovente, capita al digitante di alternare stati di torpore a stati di agitazione. Una volta si diceva “dolore” e “noia”, il famigerato pendolo schopenhaueriano che oscilla tra dolore e noia. Ma Schopenhauer è un vecchio dinosauro. La sua visione non è “smart”, non si può nemmeno “upgradare”. Al diavolo Schopenhauer allora: le pietanze metafisiche di oggi le vendono con il 2X3 ed hanno un bel “packaging” scintillante. Basta metterle non forno a microonde…
Insomma, se questa è la premessa, già vi immaginate dove voglio andare a parare: lo smartphone è un oggetto metafisico. Un “oggetto” nel senso latino del termine, ob-jectum (participio del verbo obicere) “qualcosa che mi sta dinanzi”, che “mi ritrovo gettato dinanzi”. Un “oggetto”, si badi bene, non esattamente una “cosa”. Di “cosale” il nostro aggeggio ha ben poco. Perché le cose sono reali (dal latino res), si danno nella “realtà”. Mentre lo smartphone ontologicamente si colloca al confine tra reale e virtuale. La sua “cosalità” è evanescente perché, letteralmente, si dissolve nell’iconico, apre una porta verso una dimensione “altra”. (Non a caso le funzioni dello smartphone si attivano attraverso delle “icone”: vocabolo che, un tempo, afferiva all’ambito dell’estetica religiosa). La virtualità è il regno del possibile, una sfera bi-dimensionale dove a dettare le regole del gioco è ciò che non si vede e non si sente, il cuore di macchina che pompa bit a corrente alternata, l’intreccio “onni-versivo” degli algoritmi, la rete e i suoi ingegneri, le vie infinite del capitale elettronico, “spirito assoluto” che non ha la capacità né la volontà di conoscere se stesso. L’anti-Hegel per eccellenza. Poi c’è il regno dell’analogico, quello che ti scorre sotto gli occhi iconico e colorato, fatto di immagini in movimento e suoni e ancora immagini e cuoricini e faccine e bla bla bla. Quello che ti fa innamorare ad nauseam di te stesso, di te stessa. Quello che, come un novello Narciso, ti attira nel vetro liscio e liquido dello smartphone, ti trascina dentro, ti fa sprofondare, le due dita frementi da mezzo-pianista, mezzo e ancora mezzo. E ribevi te stesso pensando che sia altro. Come dice Ovidio nelle Metamorfosi (versi 413 e seguenti) a proposito del divin fanciullo:
«Qui il ragazzo, spossato dalle fatiche della caccia e dal caldo,
venne a sdraiarsi, attratto dalla bellezza del posto e dalla fonte,
ma, mentre cerca di calmare la sete, un’altra sete gli nasce:
rapito nel porsi a bere dall’immagine che vede riflessa,
s’innamora d’una chimera: corpo crede ciò che solo è ombra.
Attonito fissa sé stesso e senza riuscire a staccarne gli occhi
rimane impietrito come una statua scolpita in marmo di Paro. […]
Desidera, ignorandolo, sé stesso, amante e oggetto amato,
mentre brama, si brama, e insieme accende ed arde.»
È una liquida illusione e tu lo sai. Bevi e col bere alimenti la tua sete. È un liquore ingannevole, che produce un oblio sciatto…
Riprendiamo il filo del discorso. L’occasione di questa “scorribanda filosofica” ci è fornita dalla lettura di un capitoletto dell’ultimo libro del filosofo tedesco di origine coreana Byung-chul Han intitolato Le non-cose. E tra le non-cose, ecco stagliarsi, ritagliandosi uno spazio metafisico tutto suo, il nostro amico smartphone.
Cito: «All’inizio della sua carriera, il telefono era avvolto in un’aura di potere ineluttabile. Il suo squillo era come un ordine imperioso.» È vero, ragazzi, proprio vero. Il telefono, quello di una volta, grigio e massiccio con la cornetta che si alzava usando la mano – la mano, la mano intera! – aveva una dimensione cosale di tutto rispetto. Nessuna suoneria spaziale o personalizzata. Nessun jingle. Solo un trillo che incuteva riguardo, deferenza. Al quale si rispondeva con un “pronto” che suonava “agli ordini”. Non era esattamente friendly. Ed era pubblico, nella migliore delle ipotesi “di famiglia”. Se lo si voleva usare in maniera amichevole e “privata”, occorreva aspettare di essere soli in casa, sempre che non fosse stato “lucchettato” dai genitori. E sì, telefonare costava salato e si pagava al minuto. A volte si potevano percepire anche i click remoti degli scatti e ad ogni scatto se ne volavano via 100 o 200 lire. Click che suonavano come il ta-ta-ta-tan, ta-ta-ta-tan, della quinta di Beethoven, la sinfonia del destino che bussa alla porta. La pesantezza delle cose, la presenza del meccanismo remoto e quella voce che sapeva di analogico…
Ora invece [cito] «il cellulare che ci portiamo appresso nella tasca dei pantaloni non possiede la pesantezza del destino. È leggero e maneggevole. L’abbiamo letteralmente in pugno.» O meglio così crediamo. Chi seduce chi? Abbiamo in mano il congegno, ma il mondo cui ci affacciamo quando strisciamo la nostra impronta digitale sullo schermo ha in mano noi. Non d’imperio. Non con voce-trillo severo. Bensì con le arti seduttive di un Narciso eterodiretto che non sa di esserlo. Dio quanto mi amo e mi odio al tempo stesso! Condannato ad essere Catullo e Lesbia insieme… L’Alterità è solo iconica, non presenziale. Dicendoti, mi sto dicendo. Senza che la realtà mi prenda, metaforicamente, a schiaffi. Il vetro mi protegge da te, meglio di quanto la custodia gommata protegga il telefonino dalle cadute accidentali (le quali, a volte, restituiscono per breve tempo al nostro beneamato il suo status di “cosa”).
Ma questo lo scopriamo dopo esser passati sotto le forche caudine della riflessione metafisica. Di primo acchito, come dice Byung-chul Han: «La mobilità dello smartphone ci dà invece un senso di libertà. Il suo squillo non terrorizza nessuno. Nulla, nel telefono portatile, ci costringe a un’inerme passività. Nessuno è sottoposto alla voce dell’Altro.» Che bello, che bello essere liberi dalla voce dell’Altro. Nessuno a cui rendere conto, se non noi stessi!
Tutto è a portata di dito. Scaccio quel che non mi interessa scorrendo con noncuranza lo schermo. Trattengo zoomando quel che sembra, sottolineo “sembra”, per un attimo inglorioso, interessarmi, ancora, sì, no, ancora e ancora. Ma, in fondo, no. Però è una bella sensazione [cito]: «Ho tutto il mondo in pugno. Il mondo deve orientarsi interamente verso di me. Per cui lo smartphone potenzia l’autoreferenzialità. Digitando come un pazzo, sottometto il mondo ai miei bisogni. Il mondo mi dà l’impressione di una totale disponibilità nell’apparenza digitale.»
Il tatto, se ci pensate bene, è il più demistificante dei sensi. Il tatto crea prossimità, intimità. È confortante, da un lato. Dall’altro, ciò che tocco diventa familiare, abitudinario, finanche noioso. Cessa di essere “bello” perché viene meno la distanza imposta dallo sguardo contemplativo. La bellezza la si apprezza da lontano. Ed è tale in quanto non la si può afferrare, né tanto meno manipolare. La sua presenza s’impone come un destino: si dà alla vista, si dà al pensiero, si dà all’anima, nella misura in cui si sottrae al tocco. Come re Mida, ciò che tocchiamo, forse, si trasforma in oro, nel senso che ci fa sentire, illusoriamente, potenti. Ma è una specie di maledizione. Mida morirà di fame perché non potrà addentare una mela trasformatasi in oro massiccio. Similmente, la nostra anima morirà di sete, se non potrà abbeverarsi alla fonte della bellezza. Il sogno di sposare Alexa, l’assistente virtuale di Amazon, che risponde al “tocco” della mia voce, è la maschera grottesca di un incubo transumano dietro il quale, a ben guardare, è dato intravedere il nero pozzo della più nera solitudine. Quella “solitudine del cittadino globale” di cui parlava il grande sociologo polacco Zygmunt Bauman.
Il vedere sottomesso al toccare, il vedere senza guardare, lo scorrere senza soffermarsi su niente, saltando da una app all’altra, riduce la capacità contemplativa. Insterilisce lo stupore. Dissecca le fonti della meraviglia. È tutto lì, a portata di dito. Il sogno si fa convulso, perde slancio, indietreggia. La fantasia, senza il foglio bianco di una mente serena, distesa, si atrofizza. Troppi input, troppe immagini, troppi stimoli tutti insieme. Una sensibilità iper-stimolata produce un’anima bulimica. Alla fine non trattiene nulla: rigetta indistintamente tutto quanto. Tante immagini, nessun volto. Diecimila fotografie digitali, nessun vero ricordo. Non c’è più tempo per ricordare, ovvero per “richiamare al cuore” (cor, cordis) le cose e i volti della nostra vita. L’esprit de finesse di Pascal, quello, per intenderci, delle “ragioni del cuore che la ragione [geometrica-cartesiana] non conosce” langue, si svigorisce. Ricordatevi: morto un dio, forse, se ne farà un altro. Ma se lasciamo che a morire sia la spiritualità stessa, intesa come facoltà dell’umano, ebbene, di dèi non se ne staglieranno più all’orizzonte. E senza dèi, l’umanità è spacciata. Il divino rappresenta l’Altro per eccellenza, è distanza, mistero, sbalordimento, thauma. Grazie al divino posso cogliere il mio limite. Senza limite l’umano perde la sua ragion d’essere. I Greci, questo, lo sapevano bene. È il limite a definire la cosa. È il divino a definire l’umano. Per questo «l’eccesso, come insegna Eraclito, andrebbe spento più tosto che l’incendio» (fr. 43). Prometeo e la sua techne non dovrebbero insuperbire oltremisura.
Ma in cosa consiste, in ultima istanza, la filigrana “poietico-ontologica” su cui si fonda la metafisica dello smartphone? (“Poietico”, ovvero che “fa essere”, dal verbo greco poieo). Ridò la parola a Byung-chul Han: «L’indice che ordina merci o cibo trasferisce giocoforza il proprio habitus consumistico in altri ambiti. Tutto ciò che tocca assume la forma di una merce. Nel caso di Tinder, si degrada l’Altro a oggetto sessuale. Depredato della propria alterità, anche l’Altro diventa consumabile.» È chiaro? La potenza sottesa all’atto del “digitare” e alla “digitalizzazione”, come operazione politico-economica globale, consiste semplicemente nel poter trasformare tutto quanto in merce. Tutte le cose del mondo – quello virtuale e quello reale al tempo stesso – vengono “trasfigurate” in merci che si possono scambiare con un dito. Anche il denaro, merce metafisica per eccellenza come ci insegna Marx, proteicamente capace di tramutarsi in qualsivoglia merce, diventa ancor più etereo, energetico, fotonico (giacché il tempo è denaro). Perduta la sua forma metallica, già metafisicamente carica di simboli ed effigi, esso dismette anche la sua seconda veste cartacea, si smaterializza in “moneta elettronica”, “bit coin”. Via la maschera! Il re-denaro è nudo! Ma proprio a causa di questa sua radicale nudità, esso non è più visibile agli occhi delle moltitudini. Toccando, abbiamo disimparato a vedere. L’osceno non fa più impressione, perché riempie ostensivamente l’intera scena del mondo. Non solo. Esso dilaga nella nostra interiorità, la colonizza, la categorizza, la etichetta, la mercifica… Quando l’unica risposta possibile al “desiderio” consiste nel poter (o nel non poter) “comprare” qualcosa, allora è il “desiderio” stesso (alla lettera “ciò che viene giù dalle stelle”, de-sidera) a snaturarsi. Mi dematerializzo, mi inscatolo, mi infiocchetto, mi vendo, mi compro: le vetrine dei social scintillano di essere che si fa niente. Su Tinder, ragazze che vendono la foto di un piede tanto al byte. Allora, dinanzi alla realtà arretro, anoressico. Diventa tutto più difficile, finanche uscir di casa. Perché la realtà è fatta di alterità che non si lasciano omologare, non si possono manipolare, resistono alla digitalizzazione. Ed io mi sento indifeso. Così indifeso… Una delle cifre più esplicite di questo progressivo arretramento nella virtualità è rappresentata, a mio avviso, da quelle foto di copertina-social in cui una ragazza (in genere, si tratta di una ragazza) si fotografa davanti ad uno specchio tenendo in mano lo smartphone. Un gioco di specchi che ti protegge, allontanandoti dal residuo immaginario di uno sguardo impertinente… Ti mostri sottraendoti allo sguardo. È fantastico. Me la immagino la dea di Parmenide, lì sull’Acropoli di Elea, ridere a crepapelle… È il colmo della ybris, questa, che trascolora in disperazione.
Pensare di poter sostituire la presenza, l’Essere parmenideo, con un surplus bulimico di essenze, un fiume inarrestabile di forme, immagini, suoni: l’ultimo, il più sottile e deleterio atto di superbia della metafisica occidentale. Ecco che [cito] «nel quadro della comunicazione digitale spesso scompare anche l’atto di chiamare. L’Altro non viene chiamato appositamente: preferiamo scrivere messaggi di testo invece di chiamare, poiché per iscritto siamo meno esposti all’Altro. In tal modo scompare l’Altro in forma di voce. La comunicazione via smartphone è senza corpo né sguardo.» Nessun corpo, nessuno sguardo, nessuna voce. Nessuna presenza. Ma senza Altro a far da ostacolo, da limite, l’Io, ritirandosi dal reale, si enfia virtualmente a dismisura. Nessuna forma può sostituire la presenza. Così come nessuna quantità può supplire alla qualità. Posso moltiplicare all’infinito la velocità di calcolo di un processore. Ma non otterrò mai da Alexa una lagrima d’amore. Oppure sì? L’Intelligenza Artificiale diventerà un giorno autoconsapevole? E noi impareremo a comunicare con essa? Ci fraintenderemo? Riusciremo a gestire la nostra paura? Chi può dirlo…
Dietro lo schermo, senza presenza, la “comunità” s’indebolisce, diventa estemporanea, alla fine dilegua. Senza lo “sguardo dell’Altro” a scrutarci, senza dover affrontare lo sguardo dell’Altro, la capacità empatica su cui si fonda, dai tempi in cui cacciavamo insieme mammut, il nostro esser animali linguistici e sociali, si isterilisce. [Cito]: «L’assenza dello sguardo è corresponsabile della perdita d’empatia nell’epoca digitale. Persino ai bambini piccoli viene impedito l’accesso allo sguardo ogni volta che la loro persona di riferimento fissa lo schermo. Nello sguardo della madre il bimbo trova appiglio, conferma, comunità. Lo sguardo smantella ciò che è estraneo. La mancanza dello sguardo conduce a una relazione distorta con sé e con l’Altro.» Dalla communitas all’immunitas. Dalla comunità all’immunità ultra-individualista. Lo abbiamo sperimentato in maniera ancor più cruda e obtorto collo in questi ultimi tre anni. La strada è tracciata. L’ultima frontiera del potere è quella della cosiddetta “psicopolitica”, per usare un’altra fortunata locuzione coniata da Byung-chul Han. Una volta virtualizzata la vita, il potere deve colonizzare a fondo la nostra psiche. I corpi, cartesianamente ridotti a meccanica fisiologica separata dalla mente, si adegueranno. Per questo è necessario cominciare dai più piccoli. Mi ricordo di un bambino di due anni lasciato ad instupidirsi con un tablet in mano mentre la madre partoriva il suo secondogenito. Poi, una volta approdato alle elementari, qualche psicopedagogista, probabilmente, gli diagnosticherà una “sindrome da deficit di attenzione” (rispetto a quel che avviene nella realtà). Più in là, ci si chiederà perché mai il nostro ragazzo ha difficoltà a socializzare e a condividere quel che ha appreso (o non appreso) con lo studio, nonché la sua visione del mondo. Lo si classificherà tra i casi “BES”, e, se la famiglia potrà permetterselo, gli affiancherà un terapista…
Prima vi dicevo che l’ontologia dello smartphone è una forma di “onto-poiesi”. Avete capito cosa significa? Il dispositivo non si limita a riprodurre la realtà, a vederla con “altri occhi”, come nel cinema o nella fotografia analogica, ma, di fatto, la crea, riducendola ad immagine [cito]: «Lo smartphone fa il mondo, cioè se ne impadronisce creandolo in forma d’immagini. L’obiettivo fotografico e lo schermo diventano quindi elementi centrali dello smartphone in quanto forzano la trasformazione in immagini del mondo. Le immagini digitali trasformano il mondo in informazioni disponibili. Lo smartphone è un «impianto» nel senso heideggeriano del termine Ge-Stell, poiché racchiude in sé quale essenza della tecnica tutte le forme del rendere disponibile: ordinare, immaginare, creare. Il prossimo passo di civiltà si spingerà oltre la trasformazione del mondo in immagini. Consisterà nel creare il mondo, cioè una realtà iperreale, partendo dalle immagini.»
“Realtà aumentata”, “iperrealtà”, “metaverso”: le nuove frontiere del “disponibile”. Ci si dimentica che la disponibilità non è condizione a se stante. Essa presuppone sempre un “me” di troppo: è disponibile per me. Narciso, come si è visto, è lì a rammentarcelo. Il pelo dell’acqua è la superficie liscia e seducente dello smartphone. La tecnica si nutre del nostro ego e lo risputa fuori “iperreale”. In compenso, cari miei, voi dovreste imparare ad innamorarvi dell’indisponibile, del remoto, del faticoso. Tutto quel che è facile, tondeggiante e luminoso, seducendoci, mente. Le cose, invece, “stanno”, ergendosi, intorno a noi: difficili, spigolose, umbratili. Ma reali. Senza la bussola della realtà, nel regno degli “infomi”, come li definisce Byung-chul Han, cioè delle “non-cose” fatte di “informazioni” luccicanti, ornamento di niente che galleggia a pelo di schermo, facilmente smarriamo noi stessi, ovvero quel Sé che solo la negatività del radicalmente Altro può farci cogliere.
Ecco, ho parlato tanto e ho parlato difficile. Ma io vi ho esortato, anzi vi ho comandato, nel vostro interesse: “imboccate sentieri ardui e tortuosi”. E questo genere di logos lo è, me ne rendo conto. Suvvia, un po’ di coerenza e di coraggio. Vi lascio con un’immagine, questa apparentemente semplice, ma in realtà difficilissima da intendersi. Quando il treno ha frenato quel giorno, per un attimo si è fatto silenzio. Mi sono girato. Decine di volti piegati all’ingiù, gli occhi fissi, le schiene leggermente curve, pollice e indice frementi. Le porte si sono aperte e, chissà, l’amore della vostra vita, della tua, proprio della tua vita, è sceso. Ti giuro che l’ho visto scendere. Tu l’hai visto, l’hai guardato almeno un attimo negli occhi? Ti sovviene, almeno, che cosa aveva pubblicato, in un liquido frattempo, A.M. nella sua bacheca? Se avete una serata libera, vi consiglio un film del 1997. S’intitola Sliding Doors… Fa riflettere. A chi invece volesse fare un tuffo in un lago di sano realismo, ricordo il mio e-book “Liberi dentro. Il Manuale di Epitteto da praticare”. Male non fa. Naturalmente, per quanto il “mezzo sia il messaggio”, come insegna McLuhan, si può prudentemente fare un uso diverso dello smartphone, ri-orientandolo verso quella realtà fatta di volti e di cose che abbiamo evocato a più riprese. Fare un passo indietro, attivare una visione “altra” del mondo. Per esempio, ascoltando altre lezioni come questa… Di cose belle in giro ce ne stanno parecchie. A cominciare dalle persone che avete intorno. Buone feste a tutti.
Sto leggendo “Le non cose”
molto interessante
buon Natale
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La ringrazio Alberto buon Natale anche a Lei. Buona lettura
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