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Pablo Monterisi – Poesie di Gramigna e altri componimenti


Poesie di Gramigna ha un sapore e un colore tutto suo. Non dovrebbe essere letto in maniera sistematica, bensì rapsodica così come è stato composto. Un libro di carta, del resto, lo si può aprire e sfogliare a caso. I versi hanno l’andamento dei moti dell’animo, dallo sciacquio dei sentimenti che si affacciano delicatamente alla coscienza, all’irruenza, a volte spiazzante, delle immagini che colpiscono, perché debbono.

Mentre assapori le parole, che a volte ti attorcigliano la lingua, vedi cose, ascolti sonorità, percepisci atmosfere. Se cerchi un senso tuo, non lo trovi. Ma non trovi nemmeno l’autore, Pablo Monterisi, il suo ego, intendo, la durezza della sua illusione. La lettura ti distoglie per qualche attimo benedetto dal chiacchiericcio mentale, lampeggia, colora, trascolora, fa pulizia. Alla fine dei versi un bel nulla. Il foglio bianco. E non per caso… Pulisce e ricarica di energie come un tuffo nell’oceano.

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Diogene di Enoanda: …“contagiandosi per reciproca imitazione l’un l’altro come pecore”…


DIOGENE DI ENOANDA (II secolo d.C.), seguace di Epicuro, fece incidere una sintesi del pensiero del “filosofo del giardino” su un muro del portico di una sua proprietà prospiciente una piazza quadrata, nell’antica città di Enoanda nella Licia (attuale Turchia sud-occidentale), a beneficio delle generazioni presenti e di quelle future.

ἐν δυσμαῖς γὰρ ἤδη τοῦ βίου καθεστηκότες διὰ τὸ γῆρας καὶ ὅσον μέλλοντες ἀναλύειν ἀπὸ τοῦ ζῆν, μετὰ καλοῦ παιᾶγος ὑπὲρ τοῦ τῶν ἡδέων πληρόματος, ἠθελήσαμεν, ἵνα μὴ προλημφθῶμεν, βοηθεῖν ἤδη τοῖς εὐσυνκρίτοις. εἰ μὲν οὖν εἷς μόνον ἢ δύ’ ἢ τρεῖς ἢ τέτταρες ἢ πέντε ἢ ὅσους, ἄνθρωπε, βούλει τῶν τοσούτων εἶναι πλείονας, μὴ πάνυ δὲ πολλούς, διέκειντο κακῶς, κἂν καθ’ ἕνα καλούμενος πάντα παρ’ ἐμαυτὸν ἔπραττον εἰς συμβουλίαν τὴν ἀρίστην. ἐπεὶ δέ, ὡς προεῖπα, οἰ πλεῖστοι καθάπερ ἐν λοιμῶ τῆ περὶ τῶν πραγμάτων ψευδοδοξία νοσοῦσι κοινῶς, γείνονται δὲ καὶ πλείονες – διὰ γὰρ τὸν ἀλλήλων ζῆλον ἄλλος ἐξ ἄλλου λαμβάνει τὴν νόσον, ὡς τὰ πρόβατα – δίκαιον δ’ἔστι καὶ τοῖς μεθ’ήμᾶς ἐσουμένους βοηθῆσαι – κακεῖνοι γάρ εἰσιν ἡμέτεροι καὶ εἰ μὴ γεγόνασί πω -, πρὸς δὲ δὴ φιλάνθρωπον καὶ τοῖς παραγεινομένοις ἐπικουρεῖν ξένοις, – ὲπειδὴ οὗν εἰς πλείονας διαβέβηκε τὸ βοηθήματα τοῦ συγγράμματος ἠθέλησα τῆ στοᾶ ταὐτη καταχρησάμενος ὲν κοινῶ τὰ τῆς σωτηρίας προθεῖαι φάρμακα. ὧν δὴ φαῖμεν ἑνὶ ἐπεὶ τἂν ἡμεῖς πάντα τὰ εἴδη φανέντα. τοὺς γὰρ ματαίως κατέχοντας ἡμᾶς φόβους ὰπελυσάμεθα, τῶν τε λυπὴν τὰς μὲν γέ ὲξεκόψαμεν εἰς τέλειον, τὰς δὲ φυσικὰς εἰς μεικρὸν κομιδὴ συνεστείλαμεν, ἐλαχιστιαῖον αὐτῶν τὸ μέγεθος ποιήσαντες.

(Diogenis Oenandensis fragmenta, II)

“Essendo per l’età al tramonto della vita, pronto a prenderne congedo con un bel canto alla pienezza dei suoi piaceri, ho deciso di recare soccorso senza indugi, per non farmi sorprendere prima dalla morte, a tutti quelli che son ben disposti a riceverlo. Se dunque qualcuno – una o due, o tre, o quattro, o cinque, o sei persone, o quante tu, o uomo, vuoi che siano di più nel numero di quelli, in ogni caso non moltissimi – si trovasse in una condizione difficile, se fossi chiamato in loro aiuto, farei tutto ciò che è in mio potere per dare il mio miglior consiglio. Ma poiché, come ho detto sopra, i più sono in generale malati, come se avessero la peste, delle loro false credenze sul mondo, e lo diventano sempre più (contagiandosi per reciproca imitazione l’un l’altro come pecore) ed è inoltre giusto aiutare anche quelli che verranno dopo di noi (sono gente nostra, infatti, anche loro, ancorché non ancora nati), ed è dovere d’umanità prendersi cura anche degli stranieri che capitano tra noi – poiché dunque i benefici recati da qualcosa di scritto si estendono a parecchie persone, ho deciso di utilizzare questo muro per esporre in pubblico i rimedi ai mali [ossia gli insegnamenti di Epicuro]. Di questi appunto potrei dire in breve tutte le forme via via apparse. Noi infatti abbiamo dissolto i timori che ci dominano senza motivo; quanto ai dolori, alcuni li abbiamo davvero troncati via completamente, mentre quelli fisici li abbiamo ridotti assolutamente a ben poca cosa, avendo reso infinitesimale la loro grandezza”.

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Malesh – La Danse Des Heures (2021) (New Full Album)


Vi presento l’ultimo lavoro del gruppo Malesh co-fondato da un mio ex-studente, Pablo Monterisi.

https://www.facebook.com/Malesh.Band

La “trama” appare molto profonda e suggestiva. La qualità della musica “avvolgente” e “coinvolgente”, a tratti “ipnotica”. Notevoli gli stacchi strumentali che introducono momenti di cesura e di sorpresa rispetto al flusso narrativo. Acquieta, sorprende, trascina, acquieta di nuovo. Potrebbe essere ottima come supporto alla meditazione.

Chi volesse supportare il pregevolissimo studio-lavoro di questi giovani musicisti può farlo acquistando una o più copie dell’album https://malesh.bandcamp.com/album/la-danse-des-heures

Grazie!!! Facciamo in modo che se dovessero lasciare questo povero paese sia soltanto per loro scelta e andando a caccia di nuove esperienze… Che Dio (o chi per lui) ci perdoni. I giovani di oggi non lo faranno tanto facilmente. Ed è giusto così.

Malesh – La Danse Des Heures (Full Album) Malesh is an Italian duo born in 2019 with the precise intent to explore the obscure realm of Ethnic Fusion/Progressive instrumental music. Their second album “La Danse Des Heures”, based off of the homonymous painting by Gaetano Previati, explores the concept of the contrast between all the phases of a day, each one expressing a precise feeling, encapsulated in a unique story, more or less like Debussy’s Image Books: a collection of tales, each one with its own scent and color.

It has a rather minimalistic arrangement: a flute and a synthesizer exchange reciprocal laments for the abandonment of sunlight. The main character of this album is an old hag wandering in the woods. As the day unfolds, the hag retraces the same path she once crossed with her long lost partner, an innocent young girl who met a wretched destiny many moons back. The striving search for contact ends when the hag loses herself in the woods, being consequently banished in the realm of dreams, where she’s damned to relieve eternally her painful loss. Each song describes a memory of hers through a particular mood or episode, much like Debussy’s Image Books or Ravel’s Ma Mère L’Oye: a collection of tales within the tale, a continuous ekphrasis which contains the very essence of bereavement.

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Mancano le parole per dire


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La carota


Un tempo, in Giappone, per macinare il grano i contadini usavano una mola che un cavallo faceva ruotare. Il cavallo girava in tondo incessantemente, lungo tutto l’arco del giorno, cercando di afferrare una carota che gli pendeva davanti; solo al calar della sera l’animale riusciva a mangiar la carota.

Questa è l’immagine fedele della nostra civiltà.

(LA TAZZA E IL BASTONE, Storie Zen narrate dal Maestro Taïsen Deshimaru)

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Abbracciare la propria ignoranza


Orfani di quel Dio – ma non del Divino, che è il Tutto, l’Interdipendente – occorre prendersi cura della nostra ignoranza. Prendersi cura significa, in primo luogo, ascolto ed accettazione.
L’ignoranza si manifesta come paura, rabbia, angoscia. Ecco, è di questo che si parla. Il dito nella piaga della nostra umanità. Di questo occorre prender consapevolezza: presso paura, rabbia, angoscia bisogna imparare a sostare. Con paura, rabbia, angoscia prender confidenza.
Senza confidenza non le si potrà trasformare in rispetto, cura amorevole, solidarietà. Il punto di svolta si chiama accettazione del limite, riconoscersi ignoranti, fragili, bisognosi, avere il sapore di chi cerca sapore, odorare di quella fragranza che dal contatto con madre-terra – humus, umiltà – trae significato.
Ecco il valore dell’inchino, del poggiare la fronte a terra, una, due, tre volte. Non m’inchino a nessuno, perché m’inchino a tutto.
So di non sapere. Ecco perché, dopo, posso rialzarmi con fiducia, portare in giro una testa un po’ più libera, leggera, in equilibrio precario sulla colonna vertebrale, sfidando la gravità materna con il suo consenso.
Responsabilità del sapersi precariamente in viaggio: al viaggio saper dire di sì, nel viaggio affratellati, uomini, animali, piante, prima di abbandonarsi all’abbraccio della madre. Non so nulla, nulla da perdere, nulla da mantenere. Nulla.

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Scuola di vita


Come sempre faccio mie le parole dell’amico Pilado:

«El corazón de la capacidad profesional del maestro radica en saber cómo cultivar independientemente su propia inteligencia empática y actitudes relacionales. La esencia de su ética profesional consiste en sentirse responsablemente involucrado en esta tarea. La profunda motivación de la profesión docente gira en torno al deseo imperecedero de aprender, saber no saber, saber cómo involucrarse. Es una profesión que se aprende en la tienda: cosas para artesanos que “manejan la humanidad explosiva”. Requiere el coraje de un blaster o la imprudencia de un granadero. Riqueza de explosiones controladas de la humanidad».
(Chico Xavier Pilado, Escuela de vida)

«Il cuore della capacità professionale del docente sta nel saper coltivare autonomamente la propria intelligenza empatica e le proprie attitudini relazionali. L’essenza della sua deontologia professionale consiste nel sentirsi responsabilmente investiti da tale compito. La motivazione profonda della professione-docente ruota intorno alla sempreverde voglia di imparare, al sapere di non sapere, al sapersi mettere in gioco. È un mestiere che s’impara a bottega: roba da artigiani che “maneggiano umanità esplosiva”. Richiede il coraggio di un artificiere o l’incoscienza di un granatiere. Ricchezza d’esplosioni controllate d’umanità».

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Thich Nhat Hanh: Inter-essere


La verità fondamentale del Buddismo è: pratītyasamutpāda, coproduzione condizionata ovvero originazione interdipendente. In parole povere, il suo significato è che tutti i fenomeni naturali (e dunque umani), sono interconnessi sia in senso diacronico che sincronico. Tutto è uno, dall’uno tutte le cose, come aveva detto Eraclito. La coproduzione condizionata del Buddismo classico trova una eco anche nel concetto di entanglement della fisica quantistica: tutto ciò che si manifesta è frutto di relazione. La relazione precede il singolo fenomeno. Tutto è interconnesso con tutto.

Vi presentiamo un passo del maestro Zen Thich Nhat Hanh in cui questa idea è esemplificata in maniera semplice e mirabile.

Dal sito https://www.semplicementezen.com

“Un poeta, guardando questa pagina, si accorge subito che dentro c’è una nuvola. Senza la nuvola, non c’è pioggia, gli alberi non crescono; e senza alberi, non possiamo fare la carta. La nuvola è indispensabile all’esistenza della carta. Se c’è questo foglio di carta, è perché c’è anche la nuvola. Possiamo allora dire che la nuvola e la carta inter-sono.
‘Interessere’ non è ancora riportato dai dizionari, ma, unendo il prefisso ‘inter’ e il verbo ‘essere’, otteniamo una nuova parola: inter-essere. Nessuna nuvola, nessuna carta: per questo diciamo che la nuvola e il foglio inter-sono.
Guardando più in profondità in questa pagina, vedremo anche brillare la luce del sole. Senza luce del sole le foreste non crescono. Niente cresce in assenza della luce solare, nemmeno noi. Ecco perché in questo foglio di carta splende il sole. La carta e la luce del sole inter-sono. Continuiamo a guardare: ecco il taglialegna che ha abbattuto l’albero e l’ha trasportato alla cartiera dove è stato trasformato in carta. Sappiamo che l’esistenza del taglialegna dipende dal suo pane quotidiano, quindi in questo foglio di carta c’è anche il grano che è finito nel pane del taglialegna.
C’è altro: i genitori del nostro taglialegna. Guardando in questo modo, comprendiamo che la pagina che stiamo leggendo dipende da tutte quelle cose.
Se guardiamo ancora più in profondità, vedremo nel foglio anche noi. Non è difficile capirlo: quando guardiamo un foglio di carta, il foglio è un elemento della nostra percezione. La vostra mente è lì dentro, e anche la mia. Nel foglio di carta è presente ogni cosa: il tempo, lo spazio, la terra, la pioggia, i minerali del terreno, la luce del sole, la nuvola, il fiume, il calore.
Ogni cosa co-esiste in questo foglio. ‘Essere’ è in realtà inter-essere: per questo dovrebbe trovarsi nei dizionari. Non potete essere solo in virtù di voi stessi, dovete inter-essere con ogni altra cosa. Questa pagina è, perché tutte le altre cose sono.
Proviamo a restituire uno degli elementi che la compongono alla sua fonte; restituiamo ad esempio al sole la sua luce. Esisterebbe ancora questo foglio di carta? No, senza luce solare niente può esistere. Se riassorbissimo il taglialegna nei suoi genitori, di nuovo nessun foglio di carta. La realtà è che questo foglio di carta è fatto di ‘elementi di non-carta’. Se restituiamo tutti gli elementi di non carta alla loro origine, non ci sarà più alcun foglio di carta. Niente ‘elementi di non carta’ (la luce del sole, il taglialegna, la mente, eccetera), niente carta. Questo foglio, così sottile, contiene tutto l’universo”.
Thich Nhat Hanh, Essere pace

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Per dare senso ad una vita – la tua



Vincent van Gogh
, Notte stellata

Para darle sentido a una vida, la suya, no hay necesidad de cultivar, de hilo a alambre, esperanzas de otro mundo o proyectar arquitecturas teleológicas en el cielo con la consistencia de las nubes.
Solo necesita respirar toda la belleza que puede crear y percibir en este mismo momento. Y, en una inspección más cercana, siempre es este momento preciso.
Esa belleza brillante y conmovedora que germina por vibración accidental del vacío, ese vacío abisal y silencioso que participa de todas las cosas más allá del tiempo y el espacio.
Ese pozo sin fondo que también es tu alma y del que tú, como solo tú puedes hacer, destila la belleza con pétalos, miradas, toques, suspiros. Inteligencia del ojo, inteligencia de la mano, inteligencia del aliento.
Si intentas detenerlo en este momento, lo perderás. Pero, usted mismo, tiene la oportunidad de vivirla para glorificarla.

Per dare senso ad una vita – la tua – non occorre coltivare, filo a filo, sovraterrene speranze o proiettare in cielo teleologiche architetture con la consistenza delle nuvole.
Ti basta respirare tutta la bellezza che sei in grado di creare e percepire in questo preciso istante. E, a ben guardare, è sempre questo preciso istante.
Quella splendente, struggente bellezza che germina per vibrazione accidentale dal vuoto, quell’abissale, silente vuotezza che di tutte le cose partecipa al di là del tempo e dello spazio.
Quel pozzo senza fondo che è anche la tua anima e da cui tu – come solo tu sai fare – distillerai bellezza a petali, a sguardi, a tocchi, a sospiri. Intelligenza dell’occhio, intelligenza della mano, intelligenza del respiro.
Se proverai a fermarlo questo istante, lo perderai. Ma – tu proprio tu – hai la possibilità, vivendolo, di glorificarlo.
da Quaggiù e altri scritti di Chico Xavier Pilado, Conversando con Ely

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Rifiuti, isolamento, infelicità


Finché non torneremo a renderci profondamente conto che quel che ci tiene in vita, quel che noi chiamiamo “vita” è identico a ciò che tiene in vita gli alberi, l’erba, i fiori, gli insetti, non libereremo noi stessi e il mondo dal fardello di sofferenza indotta dalla nostra mente.
Usiamo il verbo “tornare” a tale consapevolezza perché essa era presente a tutte le civiltà antiche. Questo finché il rapporto con la madre-terra non è stato reciso dall’iperfetazione della dimensione tecnico-concettuale. Imparando a pensare per concetti astratti abbiamo disimparato a sentire. Imparando a costruire “cose utili” per facilitarci la vita, abbiamo finito con il “cosalizzare” il mondo intero. Questa è l’esperienza “normale” – se così si può definire – di quella parte di umanità che vive immersa nell’ “artificiale”. Dunque, con “tornare” intendiamo “tornare alla conoscenza di se stessi”, a ri-scoprire il cordone ombelicale che ci unisce alla terra e al Tutto.
“Sofferenza” e “infelicità” sono stati psico-fisici diversi. Si può soffrire senza necessariamente sentirsi infelici. O piuttosto essere infelici senza patire, al momento presente, alcuna sofferenza. La sofferenza, entro certi limiti, è connaturata a qualsivoglia esperienza umana. E su di essa le nostre decisioni, la nostra consapevolezza può ben poco. Non c’è piacere senza dolore, né gioia senza tristezza, né salute senza malattia. Con l’infelicità, invece, possiamo (provare a) confrontarci. La sua radice più profonda si chiama “isolamento”, “disconnessione”. Infelicità è lo stato mentale che ci fa credere – illusoriamente – di essere separati dal Tutto reale e naturale cui apparteniamo. L’infelicità umana è un elemento essenziale dell’attuale crisi ambientale. Non la tecnologia in sé, ma l’uso disarmonico e irrispettoso che un’umanità dolente ne fa. L’isolamento genera altro isolamento, lascia “sfiorire” la natura intorno a noi, sopprime, nel sofferente, l’esigenza di “reciprocità curativa” che dovrebbe contraddistingue l’umano “pastore dell’Essere”, per usare una celebre definizione di Heidegger.

(Chico Xavier Pilado)

Pubblicato in: istantanee, pratica filosofica

Della paura originaria


Paura di avere paura: la “paura originaria”. L’uomo si ritira nel mondo dell’illusione generato dalla mente come la tartaruga si ritira nel suo guscio. Ma la mente è così forte, così onnipervasiva, che uscirne fuori è assai difficile. I sogni degli uomini, poi, facilmente diventano contagiosi: attraverso il linguaggio si trasmettono da persona a persona.
Tensione tra paura ed “amor sui” (amore di sé): è funzionale alla vita. Un equilibrio meraviglioso che condividiamo con tutte le specie viventi. È la catena che lascia fluttuare liberamente il nostro pianeta intorno al sole, tensione dialetticamente armonizzata di forza centrifuga e forza centripeta. Così amore e paura, Eros ed Eris secondo Empedocle. Tensione alla quale occorre nietzscheanamente dire di sì. Ché altrimenti ci si avvita in quella “paura della paura” che risulta disfunzionale alla vita.
“Paura della paura” è non-accettazione del cambiamento. È attaccarsi al piacere perché si teme il dolore, alla vita per timore della morte. Senza rendersi conto che, così facendo, non si muore una volta sola, ma cento, mille volte.
Per questo bisogna imparare ad accettare la paura, senza vergognarsene, senza distoglierne lo sguardo. Imparare ad accettare la paura significa anche imparare a condividerla attraverso il linguaggio. Non per desiderio che essa evapori, altra illusione, ma per poterne condividere il peso con gli altri: ascoltare l’altrui paura aiuta a prendersi cura della propria paura. Perché così facendo non si è più soli. La solitudine dinanzi alla paura diventa patologica. E, in genere, essa è provocata dalla “paura della paura”.
Se imparassimo a creare comunità accoglienti nelle famiglie allargate, a scuola, soprattutto a scuola, al lavoro, nella società civile, tra amici, non avremmo tanto bisogno di prestazioni psichiatriche individuali. Gli esseri umani sarebbero presidio a se stessi.
Solitudine è la dimensione psichica che equivale alla prospettiva dell’isolamento in senso fisico, formale, energetico. La realtà è interconnessione. Tutto dipende da tutto. Quando “stacco” qualcosa dalla sua radice nutritiva si verifica il fenomeno apparente di quel che chiamiamo “morte”. Se colgo un fiore, recidendo il gambo che lo collega alla pianta e alla madre-terra, esso appassisce e muore come fiore. In senso assoluto, diventa altro, perché nulla si genera, nulla si distrugge. Quando, per “difenderci” dalla paura ci “stacchiamo” dal resto del mondo, interrompiamo le relazioni – più o meno problematiche – che ci legano agli altri uomini e alla natura tutta, ebbene, anche la nostra anima appassisce e muore. Quando, credendo di poter “afferrare”, “staccare”, “isolare” le cose del mondo, per poterle “capire” ed “utilizzare”, sempre mossi dalla paura originaria, ci “mettiamo di traverso” alla interconnessione di tutto con tutto. Ovvero, negando la realtà che è “inter-essere” e cambiamento incessante, energia pulsante che passa, giocosamente, di forma in forma, alla stessa maniera ci chiudiamo in noi stessi, ci isoliamo, ci arrendiamo alla paura della sofferenza.
Le passioni, allora, non armonizzate con la realtà esterna, implodono generando ulteriore sofferenza. La “seconda freccia“.

Chico Xavier Pilado

Pubblicato in: filosofia, istantanee

Religione vs. spiritualità


Se ci aggrappiamo alla credenza in Dio, non possiamo anche aver fede, perché la fede non è un aggrapparsi ma un lasciarsi andare.
(Alan Watts)

Ecco il cuore della differenza tra quello che si intende con i termini “religione” e “spiritualità”. Differenti per “religione”, in quanto esseri umani possiamo essere uniti, compassionevoli e comprensivi quanto a spiritualità. Viceversa possiamo sulla carta aderire alla medesima religione, ma essere profondamente diversi sul piano spirituale. Anzi, per l’esattezza, direi che non esiste reale differenza quanto all’essenza della spiritualità che è comune all’esperienza – almeno in potenza – di tutti gli esseri umani. Possiamo parlare di racconti diversi, miti più o meno diversamente declinati, pratiche rituali diverse. In questa differenza consiste l’immensa ricchezza dell’umano. Ma alla fine, come aveva giustamente rilevato Gustav Jung, gli archetipi di fondo su cui poggia l’inconscio collettivo dell’umanità corrispondono. Dunque, propriamente vi è una certa distanza tra persone che provano a vivere la loro spiritualità e persone che si illudono di trovare le risposte altrove. Nelle religioni, per esempio, quando sono intese come ideologie o strumenti di potere.

Pubblicato in: istantanee

Distrazione


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La sola cosa che ci consoli delle nostre miserie è la distrazione; tuttavia, è la più grande di tutte, perché essa soprattutto c’impedisce di pensare a noi stessi e fa che ci perdiamo insensibilmente. Senza di lei, saremmo nella noia; e questa ci spingerebbe a cercare un mezzo più sicuro per uscirne. Mentre la distrazione ci svaga, e ci fa giungere alla morte senza che ce ne avvediamo. (B. Pascal, Pensieri, fr. 366)

Abilissimi a cercare distrazioni. Disposti a tutto. Cosa rimarrebbe della trama della nostra quotidiana senza le consuete distrazioni? Pagheremmo qualsiasi cifra. Venderemmo all’ingrosso brani della nostra anima.

Pubblicato in: istantanee, zendo

Non dire le cose. Essere le cose!


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Il male non esiste. Né il bene. In sé nessun bene, nessun male. Solo attenzione o disattenzione. Ascolto, non ascolto. La sofferenza prende corpo là dove, sopraffatti dal brusio incessante della propria mente, non prestiamo ascolto all’altro, non ne distinguiamo la voce, non ne sentiamo l’indistinta essenza.

Ecco, in verità il male prima d’esser ignoranza è disattenzione.

Se la mente è nelle cose, se la mente è le cose, se io sono l’altro, chi potrebbe uguagliarmi in beatitudine?

Amore non è amore. Per questo è Amore.

Pubblicato in: istantanee

Nell’attimo


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Nell’attimo presente cogliere, volendolo senza volerlo, la sottile linea rossa dell’eterno. Come si apre una finestra. Per non esser più. Perché all’Intero ci si è dati. Con lo sguardo. Per quest’attimo.

(Chico Xavier Pilado)