Questo è insegnare
(Chico Xavier Pilado, Nada y alrededores, aforisma 315)
A scuola. Vi lancio pietre una volta aguzze. Per voi le ho ben smussate e amorevolmente smerigliate. Al loro interno diamanti grezzi di gioia e dolore, tetraedri di carne e sangue che la pressione senza tempo di vulcaniche passioni giovanili mi formò dentro. Un po’ alchimista, un po’ speleologo, un po’ teatrante, mai del tutto serio, il vostro gioioso silenzio rumoroso debbo infrangere ticchettandole su coscienze o, quanto meno, orecchie. Pietruzze d’emozione, di concetti vestite. Ma pietre, pur sempre pietre. Devon colpire, lasciare un segno, abbluire un’ammaccatura per far effetto. Provocare altre passioni. Ché altrimenti sarebbe vano scagliarle con tanto fervore. Produrre un’eredità d’impeti vitali agghindati di parole affinché fecondino altre persone, sempre nuove, sempre le stesse, gli occhi ridenti di giovinezza. O quanto meno provarci. Questo è insegnare. Fugare niente e su nulla gettar fondamenta.
Categoria: pratica filosofica
Metafisica dello smartphone (Byung-chul Han, “Le non-cose”)
Cleante di Asso: Inno a Zeus – Re-impariamo a pregare insieme agli antichi stoici
Zeus, il più nobile tra gli immortali, dai molti nomi, in eterno onnipotente,
signore della natura, che tutti gli esseri governi secondo legge,
salve! Tutti i mortali hanno diritto di rivolgersi a te.
A te ci rivolgiamo, avendo in sorte un’immagine del suono,
noi, i soli fra tutti gli esseri che trascinano la loro vita mortale sulla terra.
A te dedico il mio canto e sempre alla tua potenza leverò inni.
A te obbedisce tutto il cosmo che danzando si volge intorno alla terra;
ovunque lo conduci, di buon grado ti si sottomette,
giacché nelle tue mani invincibili stringi uno strumento:
la folgore forcuta, di fiamma, sempre vivente.
Grazie al suo colpo tutti i fenomeni naturali si producono.
Con esso tu armonizzi il Lógos comune che dappertutto
s’aggira, compenetrando sia i grandi che i piccoli astri;
donde ti deriva la suprema regalità su tutto.
Senza di te, o divino, nessuna opera si produce sulla terra
né nell’etereo cielo divino né nel mare,
tranne i disegni che gli scellerati escogitano mossi dalla loro follia.
Ma tu sai riportare gli eccessi entro giusta misura,
il disordine all’ordine e con sapienza rendi amiche le cose ostili.
Così, tutte le cose hai ricondotto all’uno, tanto il bene quanto il male,
un unico Lógos eterno affermando per ogni aspetto del reale.
Alcuni mortali, però, per cattiveria rifuggono questo Lógos.
Oh miseri! Pur continuando a desiderare i beni della vita,
non prestano attenzione alla legge universale del dio, né danno ascolto
a chi potrebbe recar pace alla loro vita secondo ragione, se solo gli dessero retta.
Eccoli, allora, stoltamente andar errando di male in male
gli uni impelagandosi in angoscianti controversie per desiderio di fama; gli altri
[agitandosi fuor di misura per il denaro,
altri ancora abbandonandosi senza ritegno ai piaceri e alle seduzioni del corpo.
Comunque sia, finiscono con l’incorrere nei mali, che si trascinano dall’uno all’altro,
coltivando desideri che sono proprio l’opposto di ciò che realmente vogliono.
Ma tu o Zeus, che tutti i doni elargisci e le nubi addensi, con la vivida folgore
libera gli uomini dall’ignoranza rovinosa;
poi, o padre, scacciala dalla nostra anima e fa sì che alfine s’incontri
la sapienza su cui tu stesso fai assegnamento per governare il tutto secondo giustizia.
Così, onorati grazie al tuo intervento provvidenziale, ti rendiamo onore,
celebrando senza posa le tue opere, come è giusto che faccia
chi sa di essere mortale. Non vi è merito maggiore, infatti, né per gli uomini
e neanche per gli dèi, che levar inni, secondo giustizia, alla legge universale.
(Stobeo, Egloghe, I 1, 12 p. 25,3; Svf [CA]537)
Essere filosofo nell’età del nichilismo
EPITAFFIO DI SICILO: UNA CHIAVE DI LETTURA FILOSOFICA
Ansia da esame: i consigli stoici di Epitteto
Francesco Dipalo, Liberi dentro. Vivere secondo il “Manuale” di Epitteto, in formato ebook, YCP, €4,99.
In formato kindle acquistabile su Amazon
Epub acquistabile nelle principali libreria online:
Continua a leggere “Ansia da esame: i consigli stoici di Epitteto”Sutra del cuore della Perfetta Saggezza – Pragñâpâramitâhridayasutra
SUTRA DEL CUORE DELLA PERFETTA SAGGEZZA
VERSIONE AMPIA
Si renda onore all’Onnisciente!
Questo ho udito: Un tempo il Beato (Bhagavat) soggiornava a Râgagriha, sulla collina Gridhrakûta, insieme ad un gran numero di monaci e di Bodhisattva.
In quei giorni il Beato era assorto in uno stato di meditazione, denominato Gambhîrâvasambodha. Nello stesso momento il nobile Bodhisattva Âryâvalokitesvara, giungendo alla piena comprensione della profonda Sapienza Trascendente (Prajñápáramitá), concepì questo pensiero: “Ecco, i cinque Skandha egli li ha considerati come qualcosa, che per sua natura, è vuoto.”
Fu allora che il venerabile Shariputra, grazie al potere del Risvegliato (Buddha), porse questa domanda al Bodhisattva Âryâvalokitesvara: “Qualora un figlio o una figlia di buona famiglia desideri dedicarsi allo studio della profonda Prajñápáramitá, di quale insegnamento dovrà far pratica?”
Al che il nobile Bodhisattva Âryâvalokitesvara così rispose al venerabile Shariputra: “Se un figlio o una figlia vuol veramente cogliere la profonda Prajñápáramitá, deve imparare a familiarizzare con questo pensiero:
“Cinque sono gli aggregati (Skandha), ed egli (il Buddha) li considera, per loro propria natura, vuoti. La forma è vacuità, e la vacuità è essa stessa forma. La vacuità non è differente dalla forma, la forma non è differente dalla vacuità. Ciò che è forma è allo stesso tempo vacuità, e ciò che è vacuità forma. Lo stesso vale anche per sensazione, percezione, formazioni mentali e coscienza: null’altro che vacuità. Così, oh Shariputra, tutte le cose recano impresso il carattere della vacuità, non hanno né inizio né fine, non sono né pure né impure, né imperfette né perfette. Pertanto, oh Shariputra, in questa vacuità non vi è né forma, né sensazione, né percezione, né formazioni mentali, né coscienza. Non c’è occhio, non c’è orecchio, non c’è naso, non c’è lingua, non c’è corpo, non c’è mente. Non vi è forma-colore, né suono, né odore, né sapore, né sensazione tattile, né oggetti mentali. Non vi è sfera della visione, né dell’udito, né dell’olfatto, né del gusto, né del tatto, né sfera della mente, né degli oggetti mentali, né della coscienza. Non vi è conoscenza, non vi è ignoranza, non vi è distruzione di conoscenza, né distruzione di ignoranza, e via dicendo, sino a giungere a vecchiaia e morte, né l’una né l’altra son presenti nella vacuità, né il loro annichilimento. Non c’è quel che chiamiamo sofferenza, origine della sofferenza, cessazione della sofferenza e il sentiero che ivi conduce (le Quattro Nobili Verità nella vuotezza non hanno luogo). Non vi è conoscenza, non vi è ottenimento, né non-ottenimento dell’Illuminazione (Nirvana). Perciò, oh Shariputra, dato che non c’è nulla da ottenere, chi si è accostato alla Prajñápáramitá dei Bodhisattva dimora per un certo tempo immerso nella consapevolezza. Ma quando quella bolla di consapevolezza evapora via, allora egli diviene completamente libero dalla paura, andando oltre la stessa realizzazione del cambiamento nella più profonda beatitudine del Nirvana.
Tutti i Buddha del passato, del presente e del futuro, dopo aver realizzato la Prajñápáramitá, si sono risvegliati alla perfetta conoscenza che non ha superiore.
Pertanto, dovremmo riconoscere il grande mantra della Prajñápáramitá, il mantra della grande saggezza, il mantra che non ha uguali, il mantra che placa tutta la sofferenza – che è veritiero, in quanto scevro di falsità – il mantra proclamato nella Prajñápáramitá: Gate gate Pāragate Pārasaṃgate Bodhi svāhā (andata, andata, andata verso l’altra sponda, giunta all’altra sponda, ti rendo omaggio o Saggezza).
Questo, oh Shariputra, dovrebbe essere l’insegnamento di un Bodhisattva per orientarsi nello studio della profonda Prajñápáramitá.
Fu allora che il Beato, emerso dallo stato di profonda meditazione, elogiò il discorso del venerabile Bodhisattva Âryâvalokitesvara, proferendo queste parole: “Ben fatto, ben fatto, nobile figlio! È proprio così, nobile figlio. Lo studio della profonda Prajñápáramitá dev’esser condotto nella maniera da te illustrata. Di ciò i venerabili Tathágata si rallegrano. Così parlò il Beato con la mente ricolma di gioia. E il venerabile Shariputra, il nobile Bodhisattva Âryâvalokitesvara, l’assemblea tutta, nonché il mondo intero, gli dèi, gli uomini, i demoni, gli spiriti dell’aria, accolsero con ammirazione il discorso del Beato.
Così termina Pragñâpâramitâhridayasutra.
Traduzione dall’inglese di Francesco Dipalo da Buddhist Mahayana Texts, Translated by E. B. Cowell, F. Max Müller and J. Takakusu, Oxford, the Clarendon Press [1894], Vol. XLIX of The Sacred Books of the East, Parte II, p. 145 ss. Licenza: https://creativecommons.org/licenses/by-nc/4.0/deed.it
Conquistarsi uno spazio di libertà interiore con Epitteto: una lettura agevole e salutare

A chi (durante o dopo le feste: ogni giorno può essere una “festa”) volesse dedicare un po’ di tempo alla lettura e alla meditazione in vista del proprio benessere interiore consigliamo>>>>
>>>>Francesco Dipalo, Liberi dentro. Vivere secondo il “Manuale” di Epitteto, in formato ebook, YCP, €4,99. Economico e facile da consultare.
Il Manuale di Epitteto, introdotto, tradotto e commentato in senso pratico filosofico dal prof. Francesco Dipalo. Ampio apparato di note, dizionario storico-filosofico, esercizi da praticare.
In formato kindle acquistabile su Amazon: https://www.amazon.it/Liberi-dentro-Francesco-Dipalo-ebook/dp/B09KG2GLZ2/
Epub acquistabile nelle principali libreria online:
-Youcanprint: https://www.youcanprint.it/liberi-dentro/b/a98726c5-6ea0-56f2-811d-2f7b1ddf261c
-Feltrinelli: https://www.lafeltrinelli.it/liberi-dentro-manuale-di-epitteto-ebook-francesco-dipalo/e/9791220364409
-Mondadoristore: https://www.mondadoristore.it/Liberi-dentro-Francesco-Dipalo/eai979122036440/?sessionToken=SEQoDRsJjbpjzm7bsjVliQf8ckycUsFj
– Libreria Universitaria: https://www.libreriauniversitaria.it/ebook/9791220364409/autore-francesco-dipalo/liberi-dentro-e-book.htm
-IBS: https://www.ibs.it/algolia-search?ts=as&query=9791220364409&query_seo=9791220364409&qs=true
Francesco Dipalo, Liberi dentro. Vivere secondo il “Manuale” di Epitteto, eBook per kindle (su Amazon anche con bonus cultura e carta docente)

Francesco Dipalo, Liberi dentro. Vivere secondo il “Manuale” di Epitteto, in formato ebook, YCP, €4,99.
Ora acquistabile in formato kindle su Amazon
Il volume contiene l’edizione integrale del Manuale di Epitteto, ampiamente commentato e presentato in chiave di pratica filosofica. L’autore propone l’opera come possibile guida per le scelte della propria vita, e indica con precisione gli esercizi spirituali che possono essere praticati ispirandosi al Manuale e, in generale, alla filosofia stoica, riadattandoli al contesto e alle esigenze della vita di tutti i giorni. Questo lavoro si inserisce sul solco delle ricerche che traggono ispirazione della lezione sul modo di leggere i filosofi antichi che ci ha lasciato Pierre Hadot. È un libro per tutti, scritto da chi lavora a scuola con un linguaggio piano e diretto.
Lunghezza: 367 pagine | Miglioramenti tipografici: Abilitato | Scorri Pagina: Abilitato |

Questo articolo è acquistabile con il Bonus Cultura e con il Bonus Carta del Docente quando venduto e spedito direttamente da Amazon.
Il Manuale di Epitteto applicato ad un episodio di vita vissuta
Francesco Dipalo, Liberi dentro. Vivere secondo il “Manuale” di Epitteto, in formato ebook, YCP, €4,99.
Al momento acquistabile su:
Liberi dentro. Vivere secondo il Manuale di Epitteto pubblicato in formato ebook

In formato kindle acquistabile su Amazon
Epub acquistabile nelle principali libreria online:
Il volume contiene l’edizione integrale del Manuale di Epitteto, ampiamente commentato e presentato in chiave di pratica filosofica. Dipalo propone l’opera come possibile guida per le scelte della propria vita, e indica con precisione gli esercizi spirituali che possono essere praticati ispirandosi al Manuale e, in generale, alla filosofia stoica.
Questo lavoro si inserisce sul solco delle ricerche che traggono ispirazione della lezione sul modo di leggere i filosofi antichi che ci ha lasciato Pierre Hadot. È un libro per tutti, scritto da chi lavora a scuola con un linguaggio piano e diretto.
Continua a leggere “Liberi dentro. Vivere secondo il Manuale di Epitteto pubblicato in formato ebook”“Liberi dentro. Vivere secondo il Manuale di Epitteto” – Recensione
Francesco Dipalo, Liberi dentro. Vivere secondo il “Manuale” di Epitteto, in formato ebook, YCP, €4,99.
Al momento acquistabile su:
La sensazione che si prova sfogliando Liberi dentro è quella dello scolaro che, su invito del maestro, accetta di venire introdotto ad una semplice ri-lettura in chiave contemporanea di un testo filosofico antico. Terminata l’ultima pagina, tuttavia, ci si accorge che il suo contenuto è quanto di più vicino al messaggio filosofico originario, proprio perché, paradossalmente, è quanto di più lontano dalla classica esegesi scolastica. Chi di noi non ha tentato, almeno una volta, di dare/darsi una de-finizione (dove de-finire sta per circoscrivere, stabilire dei confini precisi) del concetto di “felicità” – per certi aspetti la più originaria tra le questioni etiche? Come conseguire la felicità, e come renderla duratura? Roba complicata, spigolosa, una matassa il cui bandolo nemmeno una vita intera potrebbe bastarci a sbrogliare. D’altra parte soluzioni alternative o scappatoie non ve ne sono, visto che, per dirla con le parole di Epitteto: «L’arte di vivere (la filosofia) ha come materia la vita di ciascuno».
Come lo stesso autore ama ricordare, Epitteto di Ierapoli non cavò il meglio della sua filosofia standosene seduto a tavolino, spremendosi le meningi nel tentativo di partorire elucubrazioni destinate ad un pubblico accademico. La dottrina ha origini scritte nell’auto-biografia dell’uomo Epitteto, zoppo dalla nascita, a quanto pare, nonché in condizione di schiavitù presso Epafrodito, il liberto di Nerone. Affrancato in circostanze sconosciute, Epitteto fondò a Nicopoli la sua scuola di filosofia-in-pratica, ove soleva “sferzare” le coscienze dei suoi studenti mettendoli in guardia dal fascino seduttivo delle definizioni astratte e spronandoli piuttosto ad imparare a “ben vivere”: celebre è l’esempio dell’architetto il quale, anziché sproloquiare d’architettura, mostra di aver assimilato l’arte attraverso la costruzione di una casa. Allo stesso modo il filosofo, anziché fornire la definizione di “cosa sia la filosofia”, dovrebbe esibirne la prova mettendone in pratica i precetti. Non stupiscono dunque il riferimento all’aspetto squisitamente pratico del Manuale, né il ricorso continuo, martellante, al tema dell’esercizio spirituale quotidiano, considerando la realtà sociale e politica del tempo in cui l’allievo di Epitteto, giovin signore dell’aristocrazia romana, era soggetto a molteplici spinte “conformistiche”. Si pensi, ad esempio, alle responsabilità istituzionali legate al cursus honorum, alla corruzione, alla forza trascinante delle ambizioni politiche, intese come massima aspirazione per i figli delle famiglie agiate provenienti dai ceti senatori ed equestri. Nella realtà governativa di epoca imperiale, fatta di impegni mondani, burocratici ed affaristici, in una società basata sulla consolidata tradizione di sfruttamento del lavoro schiavistico, prende piede l’esigenza di una “salvezza” intesa come ritiro nell’interiorità e “affrancamento” morale dalle condizioni esterne, quelle cose che da noi non dipendono. Il I sec. d.C., del resto, è l’epoca in cui gli orientamenti filosofici e spirituali della tradizione antica iniziano ad amalgamarsi, in particolare stoicismo e cinismo. Del filosofo cinico Epitteto porta, per alcuni versi, l’impronta. Ce lo immaginiamo ardente annunciatore di una forma di redenzione interiore, di rimodellamento e di cura del sé, basata sulla coltivazione dell’apatheia, il distacco rispetto alle cose che non dipendono dalla diretta volontà dell’individuo. L’autore prova ad immaginare in concreto quale effetto avrebbero potuto sortire i suoi inviti alla pratica sugli uditori del tempo, nonché quello che potrebbero sortire sull’uomo contemporaneo.
Cosa c’entra, si dirà, una realtà distante secoli, con la nostra? E in cosa consiste questa “redenzione” interiore? Che il Manuale rappresentasse, in origine, una sorta di “prontuario” per la cura di sé lo si evince dall’etimo greco: encheiridion indicava letteralmente il pugnale da cui il legionario non si separava mai, uno strumento indispensabile nelle situazioni di estremo pericolo. In senso più ampio, “ciò che sta nella mano” o ciò che è “da portarsi in mano”, e dunque, in senso pratico-filosofico, un pronto rimedio per trattare la sofferenza spirituale. La ricerca della felicità – nel senso stoico del “ripristino della naturale condizione di tranquillità dell’anima”, “assenza di turbamento” – rappresenta una problematica sempre viva che muta, proteicamente, in corrispondenza degli snodi biografici, storici, sociali cui sono soggetti il singolo e la comunità. In questo senso la si può immaginare come un’onda, i cui flutti vanno e vengono in conseguenza degli eventi che ci capitano ogni giorno e che richiedono a noi “naviganti” continue manovre di raddrizzamento della nave, per evitare di venire inghiottiti dalle profondità del nero oceano. Sarebbe riduttivo fornire una descrizione univoca della felicità: in ogni caso, infatti, la vita ci sorprenderà sconvolgendo i nostri piani. Epitteto direbbe – senza troppi convenevoli – che gli eventi sterni capitano indipendentemente dalla nostra volontà, dunque il meglio che possiamo fare è tentare di “attutire” l’impatto di essi contro la nostra anima, lavorando sulla rappresentazione che ce ne facciamo e facendoci trovare il più possibile “preparati” al rintoccare dell’inevitabile (praemeditatio malorum et mortis).
La stesura del commento al Manuale declina il tema della felicità secondo tutti i suoi poliedrici aspetti. La proposta di lettura si rivela efficacemente “dia-cronica” poiché viaggia indietro nei secoli alla ri-scoperta di quel messaggio “terapeutico” che appartenne ai nostri predecessori, facendolo proprio e riadattandolo alle circostanze dell’attuale temperie. Liberi dentro si può a ragione definire una guida ampia, limpida e ben calibrata, frutto della matura assimilazione dei principi dello stoicismo antico consolidata dall’autore in anni di appassionato studio e di pratica personale, tra i banchi di scuola e al servizio della società civile. È assai probabile che la scorrevolezza delle pagine evochi nel lettore l’arte sapiente del vasaio, le cui mani consumate ed esperte hanno appreso ogni recondito segreto dell’argilla: e tuttavia, quando pare che la forma sia ben tornita e la creazione perfettamente riuscita, l’autore riprende in mano quel pezzo di argilla, la materia della vita, per foggiarne nuove forme e cavarne nuovi interrogativi. Ma c’è di più: le annotazioni di pratica filosofica, ritagliate sull’esperienza quotidiana – un vero e proprio “Manuale dentro il Manuale” – rappresentano per il lettore una proposta ironica e spassionata a mettersi a nudo, a guardarsi dentro, a passare al setaccio la propria vita.
A tal fine, oltre al commento puntuale del testo di Epitteto, l’autore ha inserito, in linea con la nuova collana lanciata dall’editore, “Esercizi spirituali e filosofia” e sulla scia di Hadot, una ricognizione dettagliata dei principali esercizi spirituali, con istruzioni utili alla loro messa in opera. Se si vuole praticare la cura di sé secondo la prescrizione stoica, occorre esser disposti ad affondare le mani nelle viscere della vita, saggiandone anche gli aspetti più oscuri e facendone tesoro, al fine di condividerne l’acquisita consapevolezza. Il fondo interpretativo di Liberi dentro rivela infatti che le soluzioni messe a punto per alleviare la sofferenza non rappresentano un patrimonio esclusivo del singolo ma appartengono all’umanità intera, al di là delle barriere spazio-temporali. La sofferenza è, del resto, condizione intrinseca all’essere umano.
La struttura espositiva del testo risulta intuitiva: l’incipit è costituito da un’ampia panoramica introduttiva al Manuale con digressioni storiche sulla vita e i costumi del tempo, sulla tradizione scritta degli insegnamenti di Epitteto da parte di Arriano di Nicomedia, sulla vita e la formazione del filosofo, sull’eredità della dottrina attraverso i secoli e le varie riletture che ne sono state fatte. Seguono poi preziose indicazioni bibliografiche riguardanti Epitteto e la dottrina stoica in generale. L’esposizione prosegue con la traduzione del Manuale accompagnata da un ampio commento in forma di notazione discorsiva, nel quale figurano diversi richiami allo stoicismo delle origini e alle altre tradizioni filosofiche cui attinge Epitteto, in particolare quella socratica e cinica. Terminata la lettura del commento, è a disposizione del lettore la rassegna di esercizi spirituali di cui si diceva, opportunamente illustrati dal punto di vista storico ed etimologico. Il linguaggio chiaro e scorrevole rende questa scelta espositiva particolarmente felice, considerato che gli esercizi dovrebbero essere ripetuti quotidianamente per sortire effetti benefici sull’individuo. Sono frequenti, in questa sezione, i richiami ai passi salienti delle Diatribe. Il lavoro di commento al Manuale si conclude con un “Dizionario di termini e nozioni filosofiche”, già utilizzate nel commento, pensato per la libera consultazione del neofita. In tutto e per tutto un libro “da praticare”.
Giulia Santarelli
Che cos’è una domanda filosofica?
Cosa significa “vivere veramente”?
Un percorso di filosofia pratica tra Occidente ed Oriente intorno al tema della “vera vita” sulla scorta del pensiero di François Jullien
Continua a leggere “Cosa significa “vivere veramente”?”CHI RESTA CALMO VINCE
ARGOMENTI TERAPEUTICI DELL’IRA NELLA FILOSOFIA EPICUREA

L’Epicureismo antico: pratica di vita e d’azione psicoterapeutica piuttosto che puro esercizio intellettuale
Nelle opere di Epicuro (342 – 270 a.C.) rimaste – ben poche rispetto alla fecondissima attività letteraria del filosofo di Samo – il tema dell’ira compare solo di sfuggita. Ma che esso dovesse avere un posto di primo piano nella teoria e nella prassi terapeutica epicurea ce lo confermano le opere di due grandi Epicurei di epoca romana, il De ira di Filodemo di Gadara (circa 110 – circa 35 a.C.) e, soprattutto, il De rerum natura di Tito Lucrezio Caro (circa 98-96 – circa 55 a.C.).
L’Epicureismo antico fu, in primo luogo, una pratica di vita. La dottrina non ebbe mai un valore meramente intellettuale. Celebre è la sentenza: «è vuoto il discorso di quel filosofo che non riesca a guarire alcuna sofferenza dell’uomo: come non abbiamo alcun bisogno della medicina se essa non riesca ad espellere dal nostro corpo le malattie, così non abbiamo alcuna utilità della filosofia se essa non serva a scacciare le sofferenze dell’anima» (Us. 221). Di questo, dunque, si tratta: usare il discorso filosofico per guarire quel che oggi chiameremmo “disagio esistenziale” o “sofferenza psichica”, ristabilendo equilibrio e pace interiore. Ristabilire, perché lo sfondo dell’esistenza è, di fatto, piacevolmente quieto, scevro di preoccupazioni. La vita, non fosse per le passioni e i falsi desideri ai quali spesso affidiamo, per ignoranza, il timone dell’animo nostro, è esperienza meravigliosa. Il vero fine del filosofare consiste nello scoprire dentro di noi questo vasto, profondo, giacimento di vitalità imperturbata (atarassica), sperimentando nelle pieghe della quotidianità le pratiche più consone a mantenerlo, per quanto possibile, puro e incontaminato. La filosofia agisce come un farmaco da prendere, alla bisogna, per contrastare l’insorgere delle passioni – desideri violenti e sconclusionati, paura, angoscia, rabbia, delusione – o alleviarle quando c’affliggono, provocando lo sterile, affannoso fluttuare della mente. A tale sofferenza, in gran parte autoindotta, dunque, c’è rimedio: ecco la buona novella di Epicuro, che riecheggiò da un capo all’altro del mondo antico per centinaia e centinaia di anni, facendo ecumenicamente proseliti presso ogni popolazione, senza distinzioni di classe, credo politico, cultura, sesso. Quale migliore testimonianza dell’efficacia di questa medicina filosofica?
Il vero significato dell’edonismo epicureo
La filosofia, pertanto, deve esser utile a perseguire un modo di vivere piacevole. Sul termine “piacere” (in greco edoné da cui “edonismo”) è stato costruito, probabilmente ad arte, l’equivoco che a partire dal Medioevo cristiano ha tenuto la spiritualità epicurea in una sorta di esilio forzato rispetto alle principali linee di sviluppo della civiltà occidentale. Un equivoco facilmente scioglibile. Anche all’occhio del lettore più disattento, difatti, i testi superstiti – forse scampati ad una postuma operazione di damnatio memoriae – rivelano una concezione del piacere nient’affatto assimilabile a quella condannata dalla dottrina cristiana, tanto meno a quella liquida e consumistica che ha corso oggidì. Ecco un paio di massime dal significato inequivocabile: «trabocca il mio corpo di dolcezza vivendo a pane e acqua, e sputo sui piaceri del lusso, non per se stessi, ma per gli incomodi che li seguono»; «meglio per te impavido giacere su umile giaciglio che in preda a turbamento possedere aureo letto e sontuosa mensa» (Us. 181 e 207). Veri “piaceri” per l’Epicureo sono la serenità d’animo (atarassìa, alla lettera “assenza di turbamento”) e il benessere corporeo (aponìa, “assenza di affaticamento”) che derivano dal pacato soddisfacimento dei bisogni naturali e necessari, sia in senso fisico che psichico – di qui, per esempio, il grande rilievo dato all’amicizia. Ai desideri naturali ma non indispensabili, poniamo, una vita sessuale particolarmente disinvolta, occorre accostarsi con molta circospezione: spesso il prezzo che ci fanno pagare in termini di ansia e trepidazione, fa sì che il gioco non valga affatto la candela. Quelli poi che non trovano alcun fondamento in una sana fisiologia, occorre sfuggirli come la peste: finiscono con l’avvelenare anima e corpo, generando brame che non possono esser soddisfatte, perché contro-natura. Un vero e proprio bagno di realtà.
Lo stato di pace e letizia, proprio del saggio – nel linguaggio epicureo “piacere catastematico” ovvero in quiete – non è barattabile con il fugace godimento dei cosiddetti “piaceri cinematici”, in movimento: se non proprio dannosi essi sono comunque effimeri ed inconsistenti. Se mi capita di poter mangiare, magari in compagnia, una pietanza abbastanza succulenta, ben venga. Altrimenti non ci perderò certo il sonno. L’Epicureo, quindi, si eserciterà a calmare la mente – e con essa il corpo – fugando gli spettri prodotti dall’ignoranza – superstizioni, fobie, manie di persecuzione – piuttosto che ad eccitare i sensi in crapule e bisbocce. Lungi dall’assomigliare al viveur dipinto dalla tradizione antiedonistica, insomma, abbiamo qui a che fare con una specie di monaco.
Imparare a comprendere il linguaggio delle emozioni
Ma la cura epicurea, come si diceva, si prefigge fondamentalmente lo scopo di aiutare il praticante a controllare le emozioni, impedendo che esse si trasformino in passioni nocive. Le emozioni vanno vissute, beninteso, ma non subite – non a caso nell’etimo di “passione” è implicita la “passività” del soggetto umano. Questo intento verrà perseguito attraverso la conoscenza di sé e della natura delle cose: con “conoscenza” intendiamo qui quella consapevolezza, quella visione e sperimentazione in prima persona, che sola è in grado di trasformare in profondità l’individuo. Il nozionismo astratto non ha mai salvato nessuno.
È facile distinguere un’emozione da una passione: la passione, qualunque sia la sua “tonalità” e l’oggetto, presunto, al quale è rivolta, genera dipendenza e s’ammanta, presto o tardi, di una cappa di sofferenza. Nella passione non vi è libertà, perché non vi è vera consapevolezza. C’appassioniamo per qualcosa che non è reale o, meglio, che non riusciamo ad accettare per quel che davvero è. C’illudiamo, per esempio, che una preghiera possa muovere a compassione la divinità o una buona somma di denaro donarci quella sicurezza esistenziale di cui abbiamo tanto bisogno. Ma il denaro, per chi ha la sfortuna di essere accecato dalla sua cupidigia, non basterà mai: se ne vorrà di più, e ancora di più. Per questo la prognosi di tale patologia non può che risultare infausta: lungi dal conquistare quella sicurezza cui anela, lo sventurato si condannerà ad una vita grama, colma di agitazione e frustrazione, giacché «la povertà commisurata al bene secondo natura è ricchezza; la ricchezza senza una misura è grande povertà» (GV 25).
Quanto agli dèi poi, secondo il nostro filosofo, essi non sono afflitti dalle umane debolezze, poiché vivono in una dimensione separata dalla nostra – i cosiddetti intermundia – sprofondati in un eterna condizione di atarassia: non distribuiscono premi, né punizioni, non commiserano, né s’adirano. Al limite costituiscono un modello da contemplare: a loro volge il pensiero il saggio in cerca di elevazione. Nella visione epicurea vi è una netta distinzione tra mondo divino e mondo umano: alla perfezione degli uni fa da contrappunto la debolezza degli altri. «L’essere beato e immortale – infatti – non ha né procura agli altri affanni; così non è soggetto né all’ira né alla benevolenza. Queste cose infatti sono proprie dell’essere debole» (MC I). La divinità non essendo soggetta alle passioni non ha alcun bisogno di filosofare.
L’ira come prodotto della precarietà della condizione umana
L’ira, dunque, è figlia della nostra naturale debolezza. Essa si mescola alla maggior parte delle passioni umane. Scoprendosi nudi ed indifesi contro le insidie dell’ambiente circostante, in preda ad atavici terrori, i nostri antenati impararono a reagire aggredendo i potenziali nemici, fiere o altri uomini. La rabbia è generata dalla paura, paura di subire danni fisici e menomazioni, paura di rimanere senza cibo, paura di morire. Ma anche da quel senso di profonda delusione che assale chi non vede corrisposte le proprie voglie sessuali o chi si sente, in una maniera o nell’altra, emarginato dal gruppo sociale. L’amaro frutto della collera, che i più conosco assai bene, è sofferenza, per noi stessi e per chi ci è prossimo.
Ma se l’aggressività dei nostri lontani progenitori, simile a quella degli animali, produceva una dose di patimento contenuta e limitata nel tempo, comunque funzionale alla vita selvatica, e quindi secondo natura, totalmente disfunzionali sono le angosce e tribolazioni cui si condannano per ogni dove i cosiddetti uomini civili. Allo stato naturale non avevano ancora fatto la loro comparsa né gli orrori della guerra, né le innumerevoli meschinerie che fanno da corteo all’insaziabile brama di dominio, di ricchezza, di onori. Se da una parte, una volta abbandonata la selvatichezza, gli uomini hanno beneficiato dei vantaggi del vivere sociale, dalla solidità degli affetti familiari alla più ampia mutualità offerta dalla pòlis; dall’altra, l’ignoranza del funzionamento della realtà – la fisiologia materialistica ed atomistica epicurea: il mondo è insieme di atomi infiniti che si aggregano e si disgregano secondo cause meccaniche – ha alimentato false opinioni e superstizioni d’ogni sorta. Donde s’è scoperchiato il vaso di Pandora delle passioni malsane, fobie, manie, paranoie, che inquinano l’esistenza di genti incivilite sì, ma a prezzo di un diffuso infiacchimento psicofisico: al timore di pericoli concreti in agguato nella foresta, si è sostituito il vago ed angoscioso sentore di minacce più sottili, indefinite, nascoste tra le increspature di un mondo sempre più artificioso e complesso. Abbiamo inventato armi sempre più sofisticate per allontanare il terrore del nemico, nonché mille rimedi tecnologici (e oggi anche farmacologici) per alleviare le tante fatiche del vivere quotidiano, ma non sappiamo più come difenderci né dalle une, né dagli altri. E allora rabbia. Rabbia apparentemente immotivata, come quella che ci prende per improvviso impazzimento quando ci sentiamo intrappolati nel traffico o il PC ci pianta in asso.
La terapia poetica di Lucrezio a base di shock addizionali
A più riprese il tema dell’ira fa capolino nei versi di Lucrezio. Suoi sono alcuni degli argomenti che abbiamo utilizzato sin qui. Ma a rendere più efficaci tali argomenti sono le immagini che il poeta riesce a sbalzare con il suo versificare intenso, vivido, ficcante. Ecco, ad esempio, come vengono rappresentati i moventi psicologici che conducono gli uomini civilizzati a farsi irosamente guerra, l’un contro l’altro armati:
Ma gli uomini si vollero famosi e potenti,
perché su base ben ferma ristesse il loro destino,
e potessero, ricchi, condurre una liscia esistenza:
ma inutilmente, poiché lottando per giungere alla vetta
del potere, pericoloso si resero il percorrere quella via:
anche, tuttavia, dalla vetta, come fulmine, li getta, percossi,
Invidia, a volte, spregiati, nel Tartaro tetro;
Invidia infatti, come fulmine, fa avvampare le cime
di solito, e tutto ciò che si trova più in alto degli altri. (V, 1120-1128)
Lucrezio, da buon Epicureo, si mostra amichevolmente sollecito nei riguardi dei suoi interlocutori romani (a cominciare da quel Gaio Memmio cui è dedicato il De rerum natura)ed utilizza la poesia con chiari intenti terapeutici: per curare la passione dell’ira occorre ritrarla in maniera vigorosa, realistica, a tinte forti, in modo da provocare nel lettore-discepolo una sorta di shock che gli faccia prendere coscienza della natura e degli effetti “maligni” dei moti dell’animo fuori controllo. All’aggressività la filosofia muove guerra, con le parole, non con le armi. Per domare la fiera, infatti, bisogna indurla, anche con bruschezza, a più miti consigli. A ragionare, insomma.
Giacché l’ira riposa su opinioni – in genere irriflesse. Ha dunque una sua “struttura cognitiva”. Essa è scatenata dall’attaccamento a cose esteriori che si ritiene possano subire danni dall’azione altrui. Occorre analizzare la vera natura di tali cose – oggetti materiali, persone, ma anche simboli, idee, ecc. – per valutare realisticamente: 1) la loro natura intrinseca di “beni”; 2) la loro naturale mutevolezza; 3) la nostra effettiva capacità di intervenire per preservarli o difenderli. L’intervento curativo si basa, quindi, sulla comprensione della vera struttura delle cose e dell’adeguatezza (o meno) delle rappresentazioni mentali che di esse ci formiamo. Dalle rappresentazioni dipendono le emozioni e da quest’ultime i sintomi corporei manifesti, nel caso dell’ira accaloramento, gonfiore delle membra, arrossamento della pelle.
Se ci mettiamo in condizione di dipendere dagli oggetti esterni, inevitabilmente cadremo vittime delle passioni. Se non diamo importanza a ciò che importanza non merita (adiaphorà, le “cose indifferenti” degli stoici) non ci adireremo né spesso né in maniera intensa. Vivremo l’ira quando è necessario in rapporto a cose che meritano di essere difese e che è in nostro effettivo potere proteggere. Si tratterà, dunque, di una rabbia naturalmente funzionale e a tempo determinato, non di un sordo rancore che pian piano ci marcisce dentro avvelenando inutilmente le nostre giornate.
L’ira, come la gratitudine, induce dipendenza
In questo senso l’ira è sempre un segno di debolezza. Forte non è colui che manifesta la sua collera in maniera plateale, come l’omerico Achille, bensì l’uomo che è in grado di controllarne gli eccessi qualora essa si riveli necessaria, o di osservarla con dolcezza passo a passo mitigandola, qualora la si scopra collegata a fatti insignificanti, in balia dei rovesci della sorte, o peggio autoindotta da immagini mentali illusorie, non conformi a realtà.
Epicuro e Filodemo, peraltro, collegano l’ira alla gratitudine. Quest’ultima è il corrispettivo in positivo dell’ira: si è grati a qualcuno quando si ritiene di essere stati da lui beneficiati. Anche in questo caso l’attenzione del soggetto che patisce è spostata verso l’esterno e la passione viene innescata da un giudizio che crea dipendenza da una determinata cosa, persona, situazione: senza di questo sto male; tu me ne fai dono; dunque a te debbo il mio star bene. In ogni caso, far dipendere la propria serenità interiore da ciò che non è sotto il nostro controllo ci mette implicitamente in una situazione di debolezza e precarietà. Infatti la divinità, perfettamente autarchica, è esente da tali emozioni: non prova né rabbia, né riconoscenza.
All’ira può esser sotteso anche il desiderio che l’aggressore riceva un danno. Tale desiderio, a sua volta, sarebbe basato sulla convinzione che questo fatto costituisca per noi un bene, ovvero una giusta rivalsa per l’oltraggio subito. Andando ancora più a fondo scopriamo che dietro codesta convinzione si nasconde la percezione (o la credenza) che l’oltraggio ci sia stato inferto volontariamente. Dunque, alla paura di subire un danno si somma generalmente la nozione di volontarietà o intenzionalità, vera o presunta.
L’ira deriva da un uso disfunzionale dell’aggressività di cui sono dotate per natura tutte le creature viventi
Questo il complesso quadro etico-gnoseologico, umano, del tutto umano, del sentimento di ira: altrimenti si tratterebbe di pura ferocia, istintiva come nelle bestie. Pur manifestandosi naturalmente aggressive le fiere condividono con gli dèi una condizione di purezza e innocenza che le mette al riparo dall’ulteriore sofferenza che gli esseri umani si autoprocurano sottostando ai devastanti effetti delle passioni. Se non fosse per questa non avremmo alcun bisogno della filosofia, né, d’altronde, di quella spiccata socialità che contraddistingue la nostra specie. Ai pericoli oggettivamente dati, infatti, potremmo (e dovremmo) far fronte in maniera comunitaria, raggiungendo il massimo di sicurezza possibile per un mortale.
In natura esiste peraltro una forma di aggressività auto-difensiva e auto-affermativa che l’Epicureo considererebbe del tutto adeguata. Serve, poniamo, a predisporsi alla lotta quando si è assaliti e si corre il rischio di patire ferite gravi o mortali. A renderla accettabile è il fatto che essa sia rivolta, all’occorrenza, verso l’esterno, e non venga successivamente introvertita, divenendo causa di patimento per chi – pur a buon diritto – vi è soggetto. Si tratta insomma di utilizzarla quando strettamente necessario, senza strascichi psicologici di sorta.
Prendersi cura dell’ira significa sottoporre a trattamento terapeutico i propri desideri
L’ira, si è visto, risponde ad una specifica esigenza conoscitiva-interpretativa del reale. In generale essa si sviluppa a partire dalla credenza – erronea – che sia possibile soddisfare i cosiddetti desideri non naturali né necessari, come, per esempio, l’ottenere sicurezza attraverso onori e ricchezze, stimando che essi costituiscano uno scudo contro le frecce della sorte. Eppure le malattie non fanno distinzione tra il povero e il ricco (anche se quest’ultimo, in assenza di un welfare funzionante può accedere, mettendo mano al portafoglio, a cure più adeguate), e, in ultimo, nessuno sfugge alla morte. La cura eccessiva della propria reputazione o l’accumulo compulsivo di denaro ci precipitano in una spirale di affanni che non possono aver fine giacché innaturale è l’impulso ottativo che li ha generati. Da qui l’ira, surplus di afflizione autoprodotta, germinante dalla frustrazione del desiderio, ovvero dal convincimento che tra esso e il suo appagamento si frappongano mille ostacoli esterni, da rimuovere costi quel che costi. Convincimento falso, perché in realtà la sofferenza da cui prende le mosse – e su cui alligna – la collera è frutto di un ben più profondo errore di valutazione: il credere conforme a natura ciò che naturale non è, né in termini di fini – la soddisfazione del desiderio di mettersi al sicuro una volta per tutte dalla morte, ovvero dalla propria finitudine – né di mezzi – notorietà, potere, soldi. Saggezza è dare agio alla nostra vera natura di manifestarsi: le più profonde aspirazioni umane, armonia, beatitudine, sono sempre accessibili nel momento presente, “nudo piacere di vivere”. È già qui, dentro ciascuno di noi, e non richiede mezzi particolari, se non quelli che sono facilmente a disposizione di tutti – e che solo la cieca avidità di alcuni fa sì che siano inegualmente distribuiti o del tutto mancanti per altri: un tozzo di pane, un companatico semplice e genuino, una bella sorsata di acqua di fonte, o al più un bicchiere di vino sincero. In uno stato del genere, la collera non ha modo di palesarsi, perché, se assunto ad abito, esso tende a recidere alla radice l’ondivago, disordinato fluire dei desideri, che s’alimentano di pensieri e atteggiamenti, incongrui, irreali. Il segreto per spegnere la collera, per lenirne i morsi dolorosi quando c’assale, è tutto qui: tenere ben fisso lo sguardo sulla natura delle cose.
Alle radici della collera anche l’ambiguità del desiderio erotico
Tra le bramosie che producono grandi illusioni e, di conseguenza, grandi, rabbiose, delusioni, Lucrezio annovera altresì l’eros se si esprime in maniera abnorme e disfunzionale. Quando realizziamo che non si può possedere appieno l’oggetto del desiderio – trattasi di persona autonoma, con sentimenti e visione del mondo propria, guarda un po’ – ponendo fine allo spasimo prodotto in noi dal desiderio stesso, allora quel che chiamiamo “amore” si volge in odio, l’affetto in sordo rancore: odi et amo, dice Catullo, non riuscendo a darsene conto. Anche forzare oltremisura un istinto naturale produce inevitabilmente afflizione.
L’ambivalenza, del resto, è caratteristica peculiare della passionalità. L’origine dei sentimenti di ira e gentilezza –illustra Lucrezio – è assai prossima. Entrambi derivano da un certo attaccamento a desideri sorti e sviluppatisi con il viver civile. Hanno in sé un qualcosa di “artificiale” come artificiale risulta essere, in certo senso, l’umano consorzio. Rappresentano, insomma, facce della stessa medaglia, in quanto risposte condizionate ad una medesima sensazione di debolezza che allo stato di natura, forse, non è dato provare. Per questo gli animali assomigliano alla divinità. Provano rabbia o manifestano tenerezza rimanendo ben sincronizzati al loro stato attuale, senza costruire vani castelli di carte linguistici e concettuali. Ben ancorati al presente, non oscillano illusoriamente nel passato o nel futuro.
Sfatare il mito del “progresso”
Nessuna forma di progresso civile o tecnologico, in definitiva, ci può mettere del tutto al riparo dall’ansietà e dai timori atavici che ci portiamo appresso. All’appagamento di un determinato bisogno corrisponde sempre la nascita di una nuova forma di dipendenza che ci rende inevitabilmente più fragili, più vulnerabili. “Fuggire in avanti” non serve granché: produce nuove apprensioni, complessi, motivi di competizione. Il meccanismo di formazione dei desideri non ne risulta minimamente intaccato, bensì rafforzato: se ho questo, l’inquietudine mi porta a voler quello, se per avventura mi procuro tot, ecco che, un’ora dopo, quella quantità di roba non mi è più sufficiente. La “dinamicità” del desiderare è di per sé in contraddizione con quella “stabilità” che sola è in grado di donarci quiete (piacere catastematico). Il desiderio non s’acquieta, perché è per natura inquieto. Da qui deriva il tormento della fatica, della frustrazione, della rabbia, indotte da un competere con niente, per niente e su niente: “carriera”, “onori”, “riconoscimenti sociali”, “apprezzamento”, “ammirazione”, “buon nome”, e tutte le altre idiozie per le quali ci mettiamo in competizione l’un con l’altro. La vita può e deve essere molto più semplice. Il saggio epicureo prende congedo da questo modo di stare al mondo, godendosi il puro piacere di essere, al di là delle illusioni, nella dimensione dell’Adesso, di cui la corporeità costituisce il portale d’accesso. Questo il significato più vero del motto làthe biòsas, “vivi nascosto”.
La vera battaglia da vincere si combatte dentro ciascuno di noi
Paradossalmente al diminuire delle minacce esterne, reali, aumenta la possibilità di sviluppare passioni dolorose, generate dalla psiche – “nevrosi” o “psicosi” direbbe Freud – forme di violenza ed aggressività introiettate. Di queste si occupa la filosofia. Da questi mostri, le passioni, dobbiamo guardarci, da questi purgarci. L’anima viene rappresentata da Lucrezio come un campo di battaglia:
Ma se il cuore non è purificato, in quali lotte e pericoli
dobbiamo noi, pur riluttanti, allora gettarci?
Quali, allora, le acerbe spinte del desiderio, che spezzano l’uomo
ansioso, e, insieme, che grandi terrori?
E superbia, egocentrismo, insolenza? Quali terribili
sci9agure creano! E ostentare ricchezza, e l’accidia? (V, 43-48)
Chiaro è qui il rapporto tra disagio interiore ed aggressività rivolta verso l’esterno: abbandonarsi alla collera è in primo luogo un atto autolesionistico, basato sul fatto che non ci si ritiene sufficientemente “buoni”, sufficientemente “capaci” o “accettati” se non si posseggono determinate cose (o sembianze di cose) che, tuttavia, non sono affatto sotto il nostro dominio. Il che – il paradosso è solo apparente – non fa altro che elevare al quadrato quel senso di insicurezza e di frustrazione, ovvero, diremmo oggi, di “disagio esistenziale”, che si vorrebbe attenuare proprio attraverso il possesso di quei presunti beni (denaro, posizione sociale, fama, ecc.). Un comportamento, insomma, che si avvita su se stesso. La frustrazione conduce al disprezzo di se stessi. Il disprezzo di sé alla svalutazione del mondo e delle altre persone. Così monta la collera. Andiamo alla guerra – piccola o grande che sia – per difenderci dal male, per allontanare da noi dolore e morte. E così facendo produciamo a noi stessi e agli altri ancora più angoscia, distruzione, morte. La pace non è una meta, bensì è la via. Chi sconfigge l’ira, restando calmo, prevale nell’unica vera battaglia che è lecito combattere e che si può davvero vincere.
Metodi di lotta del guerriero interiore
Praticare lo stile di vita epicureo significa sostanzialmente muovere “guerra” alle passioni, in particolare all’ira. La collera si combatte con la gentilezza, con l’osservazione attenta, il distacco sereno, attraverso la meditazione dei discorsi e delle massime del maestro. Lui, Epicuro, è celebrato da Lucrezio (e dai suoi discepoli in ogni epoca e contrada del Mediterraneo) come una sorta di salvatore, colui che per primo e in maniera decisiva ha fornito all’umanità gli strumenti per liberarsi dall’inquietudine e dal dolore e incamminarsi verso la pace profonda, adamantina dello stato naturale. Compito della filosofia è quello di aiutarci a conoscere a fondo noi stessi, l’origine delle passioni che ci tormentano, il reale ordine delle cose. Portare luce nelle oscurità della nostra anima.
Incollerirsi per i colpi inflitti dal caso non ha alcun senso. A muovere l’ira, come si è detto, è la credenza che un determinato atto sia compiuto volontariamente a nostro discapito. Ora, se la natura dell’universo non risponde ad alcun criterio teleologico, i mali della vita vanno accettati per quello che sono: inevitabili condizioni naturali. Non c’è nessun colpevole, nessuna punizione, nessun senso di colpa. Ciò che deve accadere, accade e basta. Occorre perdonare a se stessi per ciò che si è, accettare la propria fragilità, “arrendersi alla vita umana”. Questo è il fine della terapia epicurea.
Con quali pratiche? Auto-analisi, meditazione dei testi, applicazione dei concetti epicurei ai propri casi autobiografici, frequentazione della comunità epicurea, vita in comune, sollecitudine nei confronti del prossimo, amicizia e, soprattutto, condivisione e franchezza (parresìa). In due parole, interiorità e comunitarismo. Tutto quello di cui abbiamo bisogno in una società, la nostra, segnata dalle inaudite sofferenze di un individualismo tutto superficie.
Consigli per la lettura
Per chi volesse approfondire l’argomento consiglio l’opera, oramai classica, della filosofa statunitense Martha C. Nussbaum, Terapia del desiderio. Teoria e pratica nell’etica ellenistica, Vita e Pensiero, Milano 1998, in particolare il capitolo settimo dedicato al tema dell’ira nel poema lucreziano, da cui ho tratto alcune delle considerazioni presenti nell’articolo. Per un approccio più autobiografico e coinvolgente al tema della pratica filosofica epicurea il libro di Romano Màdera, psicoanalista junghiano e ordinario di filosofia morale e pratiche filosofiche all’Università di Milano Bicocca, Il nudo piacere di vivere. La filosofia come terapia dell’esistenza, Mondadori, Milano 2006.