A volte i fatti storici emergono dalle nebbie della propaganda solo a decenni (o a secoli) di distanza. Vedi il caso del Massacro di Katyn’ in cui 22.000 ufficiali polacchi vennero sistematicamente e deliberatamente eliminati dai sovietici, facendo poi ricadere la colpa sui nazisti. Si è dovuto attendere il 1989 con la caduta del muro di Berlino perché il massacro fosse effettivamente attribuito al suo vero mandante, Stalin, dal quale, pure, i dirigenti dell’URSS avevano preso le distanze da decenni.
Social contro social, commento contro commento, pagina web contro pagina web, menzogna contro menzogna (in buona o cattiva fede) si potrebbe andare avanti (e si andrà avanti) per anni. Ognuno, comunque la pensi – e sfido a trovare chi sia disposto in cuor suo ad ammettere di essere “eterodiretto” o di correre tale rischio (forse qualcuno sì, oddio, qualche novello Socrate o Diogene telematico) – vedrà confermate le proprie idee più o meno preconcette e, in ultima istanza, difficilmente verificabili, data la complessità degli eventi in corso, il prospettivismo multilaterale, la propaganda e l’uso massivo dei media. La storia (e la storiografia) ha i suoi, inaggirabili, tempi.
Cosa ci sia sotto l’acciaieria di Mariupol i russi ce lo diranno a breve, suppongo. Mostreranno foto e filmati, ma tanto si dirà che si tratta solo di propaganda e, in fin dei conti, di propaganda si tratterà (vedi strage di Bucha). Dunque, cambierà poco o nulla nelle nostre teste, là dove si trova il vero campo di battaglia della propaganda, da qualunque parte essa provenga: mobilitarci, farci prendere posizione, farci entrare in guerra. Conosco persone, colleghi stimabilissimi, di grande acume storico e filosofico, che in guerra ci sono entrati, eccome. Prima a proposito della (psico)pandemia, poi con la questione Ucraina. Personalmente, non mi ritengo esperto di nulla, tanto meno di politica internazionale o di geopolitica. Insegno storia e filosofia da un quarto di secolo e ho letto interi scaffali di libri di storia contemporanea e, da un paio di mesi a questa parte, sto cercando di colmare le mie (non indifferenti) lacune pregresse in storia dell’Europa Orientale.
Di filosofia antica un po’ mi intendo. Ecco, ai Greci, in particolare ai filosofi scettici, dobbiamo un concetto – che occorre leggere in termini “verbali”, dunque, un’attività, un modo di vivere guardando ai fatti del mondo – che suona “epoché“, in italiano “sospensione [del giudizio]”. Non lo so, sono perplesso, per quanto mi sembri improbabile che i torti stiano solo da una parte e che le ragioni stiano solo dall’altra, che da una parte ci sia la “Verità” e la “Giustizia” e dell’altra la “Menzogna” e la “Sopraffazione”. La storia ci mostra tutt’altro, nonostante essa sia ancora – soprattutto quella contemporanea – impastata di propaganda (ma lo stesso potrebbe valere per la “Donazione di Costantino” o per le diatribe tra “Guelfi” e “Ghibellini”). Ecco, proviamo a dircelo con franchezza “non lo so”, “stiamo a vedere”, “vedremo”. Non cadiamo nel banalissimo trabocchetto “va bene Auschwitz, ma allora le foibe?”. Probabilmente non siamo ancora così idioti, da credere acriticamente a quello che si legge su Repubblica o sul Corriere, sul Manifesto o sul Fatto, soprattutto quando talune affermazioni, più o meno opinabili, non siano accompagnate, quanto meno, da argomentazioni degne di nota. Per inciso: già sarebbe molto se il contenuto di alcuni articoli fosse coerente ai titoli, nonché alle foto a corredo, e viceversa, dato che i più, a malapena, sono in grado, o hanno il tempo, di leggere titoli e vedere figure sullo smartphone.
Per l’intanto, però, occorre agire, mi si farà notare, c’è la politica. In primo luogo, evitiamo che la guerra la faccia da padrone nelle nostre teste (ma così non è). Poi, poniamoci, apertamente, queste domande: che strada vogliamo prendere noi che “democratici” ci diciamo? Chi decide? In base a quali interessi? Con quali obiettivi concreti? “Guerra per abbattere il dittatore russo” – messa così l’affermazione suona propagandistica, lo sappiamo bene. Di dittatori, dall’Egitto, alla Turchia (membro NATO), all’Arabia Saudita (il cui governo massacra da anni la popolazione civile inerme in Yemen con armi made in Italy, vedi p.e. Leonardo, ecc.) ne sosteniamo a bizzeffe e anche con Putin andavamo d’accordo fino a qualche anno fa. “Ha passato il segno, è un pericolo per i nostri interessi, nonché per l’umanità intera”. Benissimo, occorre agire. Facciamolo. Inviando altre armi? In realtà la NATO, di cui siamo membri, lo sta già facendo da molti anni. Di guerra, probabilmente, capisco poco o niente. Ma le colonne di carri russi inceneriti (vedi Bucha per esempio) non sono stati di certo colpiti da lolite armate di Panzefaust o da vecchiette urlanti brandenti bottiglie Molotov. Di armi anticarro e antiaeree a spalla supertecnologiche, droni e quant’altro, l’arsenale ucraino era già ben colmo prima che l’invasione russa avesse luogo – ora, al limite, andrebbe integrato ed espanso dato il prolungarsi dei combattimenti. Beninteso, queste armi non sono così efficaci, né decisive senza intelligence, comunicazioni e logistica di ultima generazione (vedi affondamento dell’incrociatore Moskva). Un mio amico, ammiraglio in riserva della brigata incursori della marina “San Marco”, con alle spalle diverse campagne all’estero (Albania, Somalia, ecc.), mi spiegò, a suo tempo, che negli eserciti NATO per ogni combattente sul campo ci sono almeno dieci “tecnici militari” preposti a intelligence, logistica, sanità, ecc., tenendo anche conto della rete di satelliti spia che ha consentito agli USA di vincere negli Anni Ottanta la “Guerra spaziale” contro l’URSS. Queste tecnologie costano miliardi e miliardi di dollari. Ci vogliono anni per addestrarsi ad usarle (pilotare un drone non è alla portata di un fantaccino come premere un grilletto). La NATO, quindi, è, “silenziosamente” (basta che non ne parlino i media), già in guerra da anni contro la Federazione Russa, se è vero che prepararsi alla guerra è già un potenziale atto di guerra. Altrimenti perché mai la storiografia utilizzerebbe la dicitura “Guerra Fredda” a proposito del quarantennale conflitto USA-URSS? Il governo russo ha frainteso quanto avveniva al di là dei suoi confini? Lo usa in maniera capziosa per giustificare il proprio espansionismo imperialista? Può darsi. Anzi, se lo vediamo in termini propagandistici, è sicuro. Anche in questo caso, però, non se ne esce: “io ti attacco preventivamente perché tu continui ad accumulare armi ai miei confini. Io continuo ad accumulare armi ai tuoi confini perché tu prima o poi potresti attaccarmi.” Cambia qualcosa?
Questo legittima l’invasione dell’Ucraina? Ovviamente no, in punta di diritto. Ce lo siamo detti fino alla nausea. Ma, certo, se vogliamo essere davvero onesti, nell’ultimo trentennio avremmo dovuto – tutti quanti intendo, le Nazioni Unite, queste “sconosciute” – avere un po’ più di cura del diritto internazionale, lavorarci sopra in maniera credibile, in termini di giustizia ed equanimità, di coinvolgimento alla pari di tutti gli Stati del pianeta, quanto meno di coerenza, non tirarlo per la giacchetta a seconda degli interessi del cosiddetto “Occidente” o, peggio, dei soli USA. Anche questa, ora come ora, appare, purtroppo, un’arma poco credibile, con buona pace di quell’Immanuel Kant de Per la pace perpetua di cui pare – è una battuta, ovvio, ma la propaganda l’ha trasformata in un argomento “serio” – che i militi del nazistissimo battaglione d’Azov siano accaniti lettori.
Eppure, insomma, è indubbiamente sul diritto, sperabilmente allargato a tutte le parti in causa, che occorre/occorrerà lavorare se vogliamo evitare in futuro ben altri scenari bellici. Per questo, però, ci vuole tempo, molto tempo, risorse, intelligenza, disponibilità, tutte cose che non mi pare abbondino in questo frangente. Ebbene, mi si dirà: la diplomazia, almeno quella, che porti ad un cessate il fuoco, ad una tregua! Non pare plausibile nemmeno questa. Nemmeno al papa a casa sua, al “papa” dico, è riuscito di far portare la croce di Cristo ad una signora ucraina e ad una russa insieme senza sollevare polemiche. E non ci si venga a raccontare che senza l’invio di armi da parte europea (in genere, pare, fondi di magazzino più o meno obsoleti), a guerra ampiamente iniziata, l’esercito ucraino non avrebbe messo in difficoltà quello russo, determinando l’attuale, provvisoria situazione di “resistenza resistita” che imporrebbe una eventuale tregua equilibrata o addirittura la cacciata dell’orso russo dalle città occupate, finanche dalla Crimea. Le armi e le tecnologie NATO erano già ampiamente disponibili, così come truppe addestrate ad utilizzarle efficacemente, ucraine o meno fa poca differenza sul piano bellico (ma non su quello politico: da qui il timore che vengano catturati altri mercenari occidentali in quel di Mariupol – le truppe cecene che combattono nell’armata russa, peraltro, non si potrebbero definire “mercenarie” dal momento che la Cecenia fa parte della Federazione russa). Gli inglesi userebbero in questo caso la locuzione “common sense“, buon senso, che, al netto di un’epoché “storico-politica” su fatti (al momento) inverificabili, è lecito continuare ad esercitare.
Nell’immediato, dunque, non rimane che la guerra. Almeno così pare. Può sempre darsi che nelle segrete stanze della Farnesina si lavori a progetti di cui l’opinione pubblica non è ancora informata, mentre è al corrente dell’infelice battuta del capo della nostra diplomazia, il ministro Di Maio, il quale, tempo addietro, ha definito Putin “peggio di un animale”. (Intanto, alla Farnesina si muore di lavoro…). Quale guerra però? E con quali obiettivi? In nome di quali interessi (o ideali, anche se questi ultimi non vanno più tanto di moda e suonano particolarmente stridenti in bocca alla gran parte dei nostri politici politicanti)? Non si capisce bene. Abbattere il governo Putin? Affinché i russi lo sostituiscano con chi o con quale forma di governo? Dovremmo occupare un ottavo della superficie del globo per insegnare a quel popolo la democrazia in salsa occidentale come abbiamo fatto, in maniera fallimentare, la sentenza della storia è inequivocabile, in Iraq o in Afghanistan? Cacciare i russi dal territorio ucraino comprese le auto-proclamate repubbliche del Donbass e della Crimea? Credo che, comunque la si metta, occorrerebbe schierare truppe NATO in battaglia. L’uso di armi atomiche tattiche – sempre che ci si limiti a quelle – possiamo darlo quasi per scontato. (Non dimentichiamoci che tra Aviano e Ghedi abbiamo sul nostro territorio decine di testate nucleari USA. Il che farebbe del nostro territorio un potenziale – e legittimo a guerra dichiarata – obiettivo bellico di attacco nucleare.)
Ammettiamo che, comunque sia, il gioco valga la candela. Al diavolo altri milioni di morti: gli ideali sono ideali, vedi, per esempio, la neo-Resistenza in salsa NATO (absit iniura verbis: molti ci credono sinceramente e anche il sottoscritto, romanticamente, per ragioni storiche e generazionali è magicamente attratto dalla parola “Resistenza”). Dovremo affrontare un’altra grave difficoltà, non solo sul piano della “Realpolitik”, ma anche su quello degli ideali. In Ucraina, di fatto, è in atto, da più di otto anni, una guerra civile armata (prima era solo strisciante), guerra civile rinfocolata e cavalcata dalla Russia, da una parte, e dal governo di Kiev (supportato da USA-NATO), dall’altra. Una parte, più o meno consistente, di quel quarto di cittadini ucraini, concentrati soprattutto nelle province orientali e maggioranza quasi assoluta in Crimea e nel Donbass, è verosimile siano o siano diventati, e non con tutti i torti, irrimediabilmente ostili al governo di Kiev. Solo “russofoni” o anche “russofili” o “filoputiniani” è solo questione terminologica, a questo punto. La differenza rispetto a noi, strateghi e belligeranti – per ora – “da salotto” (ma, aggiungerei sommessamente, anche da supermercato, pompa di benzina, bollette e quant’altro: la guerra economica è già in corso da tempo e le plebi europee la stanno vivendo sulla loro pelle), è che la guerra l’hanno vissuta e la vivono sulla loro pelle. I loro nemici portano le divise ucraine e gli stemmi nazisti. L’esercito russo ha invaso le loro città (benvenuto? chi è così stolto da pensare che la guerra sia la benvenuta qualunque stemma sia dipinto sul tank o sul cannone che demolisce casa tua?), ma almeno, per ora, le armi hanno cessato di crepitare man mano che il fronte si è spostato più in avanti. Saranno pure vittime della propaganda d’oltrecortina, qualche dissidente verrà messo a tacere (il caso della giornalista Anna Politkovskaja, brutalmente assassinata nel 2006, è di grande ammonimento), ma come pensate che si esprimeranno in maggioranza, qualora ne abbiano l’opportunità, in una consultazione referendaria sul destino delle loro province? Pro o contro l’indipendenza da Kiev? Considerando che nel 2014, alla loro richiesta di autonomia, ovvero di annullamento delle leggi liberticide che imponevano, per esempio, l’uso esclusivo della lingua ucraina in pubblico, Kiev rispose con carri armati e missili su case, ospedali, scuole, ecc. come stanno facendo i Russi adesso, di proposito o per incidente (la NATO nelle sue guerre usa l’elegante espressione “collateral victims“)? Che si fa, una volta che le fanterie NATO avranno ripreso il controllo di quelle province (ammesso e non concesso che una tale prospettiva sia verosimile)? Li si fa emigrare forzatamente in Russia? Pulizia etnica? Si costringe Kiev a tornare sui suoi passi? E i cittadini ucraini sfollati, russofoni o meno, che hanno visto le loro famiglie massacrate dai tank russi, come riusciranno a convivere con i loro connazionali filorussi? Quanti anni ci vorranno per ricucire una ferita così profonda? Pensate a quanto in profondità abbia agito nell’ultimo anno sulla coscienza dei più la propaganda vaccinisti vs. no-vax, additati dal nostro laconico Presidente del Consiglio come causa di tutti i mali d’Italia… facendoci la tara, ça va sans dire. Tante altre domande sarebbero da porsi. La propaganda di guerra, lo sappiamo bene, alza il tiro e la posta in gioco, per poi al tavolo delle trattative ottenere qualcosina in più a vantaggio dell’una o dell’altra parte, sempre che si abbia chiaro quali siano effettivamente le parti in gioco. (Gli Stati? I governi? Le multinazionali? I popoli? Le classi dominanti? Le plebi?). A quel tavolo, comunque sia, prima o poi bisognerà sedersi, la storia ce lo insegna – sempre che nel frattempo non si arrivi, questa volta per davvero e con buona pace di Francis Fukuyama, alla “fine della storia”. Sia pure per una “tregua armata” o per una riedizione della “Guerra Fredda”. Quello che distingue un Talleyrand da un Clemenceau non sono gli ideali astratti, lo “story-telling” diremmo noi oggi, ma la visione politica, la capacità di progettare il futuro, di vedere lontano. Obiettivi chiari e concretamente raggiungibili. Solo così si potrà vincere anche la pace – per un po’ di tempo almeno – dopo aver vinto la guerra. Vi ricordate chi vinse la Grande Guerra? “Noi”, gli Italiani, contro “loro” gli Austriaci? La democrazia contro l’impero del male? Vittorio Emanuele vs. Cicco Peppe? Posso dire con certezza chi la perse: nonni e bisnonni martoriati e mutilati in trincea, nonne vedove, contadini ed operai, la povera gente, insomma, da una parte e dall’altra del fronte. La politica non si è evoluta granché da quel tempo…
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