ARGOMENTI TERAPEUTICI DELL’IRA NELLA FILOSOFIA EPICUREA

L’Epicureismo antico: pratica di vita e d’azione psicoterapeutica piuttosto che puro esercizio intellettuale
Nelle opere di Epicuro (342 – 270 a.C.) rimaste – ben poche rispetto alla fecondissima attività letteraria del filosofo di Samo – il tema dell’ira compare solo di sfuggita. Ma che esso dovesse avere un posto di primo piano nella teoria e nella prassi terapeutica epicurea ce lo confermano le opere di due grandi Epicurei di epoca romana, il De ira di Filodemo di Gadara (circa 110 – circa 35 a.C.) e, soprattutto, il De rerum natura di Tito Lucrezio Caro (circa 98-96 – circa 55 a.C.).
L’Epicureismo antico fu, in primo luogo, una pratica di vita. La dottrina non ebbe mai un valore meramente intellettuale. Celebre è la sentenza: «è vuoto il discorso di quel filosofo che non riesca a guarire alcuna sofferenza dell’uomo: come non abbiamo alcun bisogno della medicina se essa non riesca ad espellere dal nostro corpo le malattie, così non abbiamo alcuna utilità della filosofia se essa non serva a scacciare le sofferenze dell’anima» (Us. 221). Di questo, dunque, si tratta: usare il discorso filosofico per guarire quel che oggi chiameremmo “disagio esistenziale” o “sofferenza psichica”, ristabilendo equilibrio e pace interiore. Ristabilire, perché lo sfondo dell’esistenza è, di fatto, piacevolmente quieto, scevro di preoccupazioni. La vita, non fosse per le passioni e i falsi desideri ai quali spesso affidiamo, per ignoranza, il timone dell’animo nostro, è esperienza meravigliosa. Il vero fine del filosofare consiste nello scoprire dentro di noi questo vasto, profondo, giacimento di vitalità imperturbata (atarassica), sperimentando nelle pieghe della quotidianità le pratiche più consone a mantenerlo, per quanto possibile, puro e incontaminato. La filosofia agisce come un farmaco da prendere, alla bisogna, per contrastare l’insorgere delle passioni – desideri violenti e sconclusionati, paura, angoscia, rabbia, delusione – o alleviarle quando c’affliggono, provocando lo sterile, affannoso fluttuare della mente. A tale sofferenza, in gran parte autoindotta, dunque, c’è rimedio: ecco la buona novella di Epicuro, che riecheggiò da un capo all’altro del mondo antico per centinaia e centinaia di anni, facendo ecumenicamente proseliti presso ogni popolazione, senza distinzioni di classe, credo politico, cultura, sesso. Quale migliore testimonianza dell’efficacia di questa medicina filosofica?
Il vero significato dell’edonismo epicureo
La filosofia, pertanto, deve esser utile a perseguire un modo di vivere piacevole. Sul termine “piacere” (in greco edoné da cui “edonismo”) è stato costruito, probabilmente ad arte, l’equivoco che a partire dal Medioevo cristiano ha tenuto la spiritualità epicurea in una sorta di esilio forzato rispetto alle principali linee di sviluppo della civiltà occidentale. Un equivoco facilmente scioglibile. Anche all’occhio del lettore più disattento, difatti, i testi superstiti – forse scampati ad una postuma operazione di damnatio memoriae – rivelano una concezione del piacere nient’affatto assimilabile a quella condannata dalla dottrina cristiana, tanto meno a quella liquida e consumistica che ha corso oggidì. Ecco un paio di massime dal significato inequivocabile: «trabocca il mio corpo di dolcezza vivendo a pane e acqua, e sputo sui piaceri del lusso, non per se stessi, ma per gli incomodi che li seguono»; «meglio per te impavido giacere su umile giaciglio che in preda a turbamento possedere aureo letto e sontuosa mensa» (Us. 181 e 207). Veri “piaceri” per l’Epicureo sono la serenità d’animo (atarassìa, alla lettera “assenza di turbamento”) e il benessere corporeo (aponìa, “assenza di affaticamento”) che derivano dal pacato soddisfacimento dei bisogni naturali e necessari, sia in senso fisico che psichico – di qui, per esempio, il grande rilievo dato all’amicizia. Ai desideri naturali ma non indispensabili, poniamo, una vita sessuale particolarmente disinvolta, occorre accostarsi con molta circospezione: spesso il prezzo che ci fanno pagare in termini di ansia e trepidazione, fa sì che il gioco non valga affatto la candela. Quelli poi che non trovano alcun fondamento in una sana fisiologia, occorre sfuggirli come la peste: finiscono con l’avvelenare anima e corpo, generando brame che non possono esser soddisfatte, perché contro-natura. Un vero e proprio bagno di realtà.
Lo stato di pace e letizia, proprio del saggio – nel linguaggio epicureo “piacere catastematico” ovvero in quiete – non è barattabile con il fugace godimento dei cosiddetti “piaceri cinematici”, in movimento: se non proprio dannosi essi sono comunque effimeri ed inconsistenti. Se mi capita di poter mangiare, magari in compagnia, una pietanza abbastanza succulenta, ben venga. Altrimenti non ci perderò certo il sonno. L’Epicureo, quindi, si eserciterà a calmare la mente – e con essa il corpo – fugando gli spettri prodotti dall’ignoranza – superstizioni, fobie, manie di persecuzione – piuttosto che ad eccitare i sensi in crapule e bisbocce. Lungi dall’assomigliare al viveur dipinto dalla tradizione antiedonistica, insomma, abbiamo qui a che fare con una specie di monaco.
Imparare a comprendere il linguaggio delle emozioni
Ma la cura epicurea, come si diceva, si prefigge fondamentalmente lo scopo di aiutare il praticante a controllare le emozioni, impedendo che esse si trasformino in passioni nocive. Le emozioni vanno vissute, beninteso, ma non subite – non a caso nell’etimo di “passione” è implicita la “passività” del soggetto umano. Questo intento verrà perseguito attraverso la conoscenza di sé e della natura delle cose: con “conoscenza” intendiamo qui quella consapevolezza, quella visione e sperimentazione in prima persona, che sola è in grado di trasformare in profondità l’individuo. Il nozionismo astratto non ha mai salvato nessuno.
È facile distinguere un’emozione da una passione: la passione, qualunque sia la sua “tonalità” e l’oggetto, presunto, al quale è rivolta, genera dipendenza e s’ammanta, presto o tardi, di una cappa di sofferenza. Nella passione non vi è libertà, perché non vi è vera consapevolezza. C’appassioniamo per qualcosa che non è reale o, meglio, che non riusciamo ad accettare per quel che davvero è. C’illudiamo, per esempio, che una preghiera possa muovere a compassione la divinità o una buona somma di denaro donarci quella sicurezza esistenziale di cui abbiamo tanto bisogno. Ma il denaro, per chi ha la sfortuna di essere accecato dalla sua cupidigia, non basterà mai: se ne vorrà di più, e ancora di più. Per questo la prognosi di tale patologia non può che risultare infausta: lungi dal conquistare quella sicurezza cui anela, lo sventurato si condannerà ad una vita grama, colma di agitazione e frustrazione, giacché «la povertà commisurata al bene secondo natura è ricchezza; la ricchezza senza una misura è grande povertà» (GV 25).
Quanto agli dèi poi, secondo il nostro filosofo, essi non sono afflitti dalle umane debolezze, poiché vivono in una dimensione separata dalla nostra – i cosiddetti intermundia – sprofondati in un eterna condizione di atarassia: non distribuiscono premi, né punizioni, non commiserano, né s’adirano. Al limite costituiscono un modello da contemplare: a loro volge il pensiero il saggio in cerca di elevazione. Nella visione epicurea vi è una netta distinzione tra mondo divino e mondo umano: alla perfezione degli uni fa da contrappunto la debolezza degli altri. «L’essere beato e immortale – infatti – non ha né procura agli altri affanni; così non è soggetto né all’ira né alla benevolenza. Queste cose infatti sono proprie dell’essere debole» (MC I). La divinità non essendo soggetta alle passioni non ha alcun bisogno di filosofare.
L’ira come prodotto della precarietà della condizione umana
L’ira, dunque, è figlia della nostra naturale debolezza. Essa si mescola alla maggior parte delle passioni umane. Scoprendosi nudi ed indifesi contro le insidie dell’ambiente circostante, in preda ad atavici terrori, i nostri antenati impararono a reagire aggredendo i potenziali nemici, fiere o altri uomini. La rabbia è generata dalla paura, paura di subire danni fisici e menomazioni, paura di rimanere senza cibo, paura di morire. Ma anche da quel senso di profonda delusione che assale chi non vede corrisposte le proprie voglie sessuali o chi si sente, in una maniera o nell’altra, emarginato dal gruppo sociale. L’amaro frutto della collera, che i più conosco assai bene, è sofferenza, per noi stessi e per chi ci è prossimo.
Ma se l’aggressività dei nostri lontani progenitori, simile a quella degli animali, produceva una dose di patimento contenuta e limitata nel tempo, comunque funzionale alla vita selvatica, e quindi secondo natura, totalmente disfunzionali sono le angosce e tribolazioni cui si condannano per ogni dove i cosiddetti uomini civili. Allo stato naturale non avevano ancora fatto la loro comparsa né gli orrori della guerra, né le innumerevoli meschinerie che fanno da corteo all’insaziabile brama di dominio, di ricchezza, di onori. Se da una parte, una volta abbandonata la selvatichezza, gli uomini hanno beneficiato dei vantaggi del vivere sociale, dalla solidità degli affetti familiari alla più ampia mutualità offerta dalla pòlis; dall’altra, l’ignoranza del funzionamento della realtà – la fisiologia materialistica ed atomistica epicurea: il mondo è insieme di atomi infiniti che si aggregano e si disgregano secondo cause meccaniche – ha alimentato false opinioni e superstizioni d’ogni sorta. Donde s’è scoperchiato il vaso di Pandora delle passioni malsane, fobie, manie, paranoie, che inquinano l’esistenza di genti incivilite sì, ma a prezzo di un diffuso infiacchimento psicofisico: al timore di pericoli concreti in agguato nella foresta, si è sostituito il vago ed angoscioso sentore di minacce più sottili, indefinite, nascoste tra le increspature di un mondo sempre più artificioso e complesso. Abbiamo inventato armi sempre più sofisticate per allontanare il terrore del nemico, nonché mille rimedi tecnologici (e oggi anche farmacologici) per alleviare le tante fatiche del vivere quotidiano, ma non sappiamo più come difenderci né dalle une, né dagli altri. E allora rabbia. Rabbia apparentemente immotivata, come quella che ci prende per improvviso impazzimento quando ci sentiamo intrappolati nel traffico o il PC ci pianta in asso.
La terapia poetica di Lucrezio a base di shock addizionali
A più riprese il tema dell’ira fa capolino nei versi di Lucrezio. Suoi sono alcuni degli argomenti che abbiamo utilizzato sin qui. Ma a rendere più efficaci tali argomenti sono le immagini che il poeta riesce a sbalzare con il suo versificare intenso, vivido, ficcante. Ecco, ad esempio, come vengono rappresentati i moventi psicologici che conducono gli uomini civilizzati a farsi irosamente guerra, l’un contro l’altro armati:
Ma gli uomini si vollero famosi e potenti,
perché su base ben ferma ristesse il loro destino,
e potessero, ricchi, condurre una liscia esistenza:
ma inutilmente, poiché lottando per giungere alla vetta
del potere, pericoloso si resero il percorrere quella via:
anche, tuttavia, dalla vetta, come fulmine, li getta, percossi,
Invidia, a volte, spregiati, nel Tartaro tetro;
Invidia infatti, come fulmine, fa avvampare le cime
di solito, e tutto ciò che si trova più in alto degli altri. (V, 1120-1128)
Lucrezio, da buon Epicureo, si mostra amichevolmente sollecito nei riguardi dei suoi interlocutori romani (a cominciare da quel Gaio Memmio cui è dedicato il De rerum natura)ed utilizza la poesia con chiari intenti terapeutici: per curare la passione dell’ira occorre ritrarla in maniera vigorosa, realistica, a tinte forti, in modo da provocare nel lettore-discepolo una sorta di shock che gli faccia prendere coscienza della natura e degli effetti “maligni” dei moti dell’animo fuori controllo. All’aggressività la filosofia muove guerra, con le parole, non con le armi. Per domare la fiera, infatti, bisogna indurla, anche con bruschezza, a più miti consigli. A ragionare, insomma.
Giacché l’ira riposa su opinioni – in genere irriflesse. Ha dunque una sua “struttura cognitiva”. Essa è scatenata dall’attaccamento a cose esteriori che si ritiene possano subire danni dall’azione altrui. Occorre analizzare la vera natura di tali cose – oggetti materiali, persone, ma anche simboli, idee, ecc. – per valutare realisticamente: 1) la loro natura intrinseca di “beni”; 2) la loro naturale mutevolezza; 3) la nostra effettiva capacità di intervenire per preservarli o difenderli. L’intervento curativo si basa, quindi, sulla comprensione della vera struttura delle cose e dell’adeguatezza (o meno) delle rappresentazioni mentali che di esse ci formiamo. Dalle rappresentazioni dipendono le emozioni e da quest’ultime i sintomi corporei manifesti, nel caso dell’ira accaloramento, gonfiore delle membra, arrossamento della pelle.
Se ci mettiamo in condizione di dipendere dagli oggetti esterni, inevitabilmente cadremo vittime delle passioni. Se non diamo importanza a ciò che importanza non merita (adiaphorà, le “cose indifferenti” degli stoici) non ci adireremo né spesso né in maniera intensa. Vivremo l’ira quando è necessario in rapporto a cose che meritano di essere difese e che è in nostro effettivo potere proteggere. Si tratterà, dunque, di una rabbia naturalmente funzionale e a tempo determinato, non di un sordo rancore che pian piano ci marcisce dentro avvelenando inutilmente le nostre giornate.
L’ira, come la gratitudine, induce dipendenza
In questo senso l’ira è sempre un segno di debolezza. Forte non è colui che manifesta la sua collera in maniera plateale, come l’omerico Achille, bensì l’uomo che è in grado di controllarne gli eccessi qualora essa si riveli necessaria, o di osservarla con dolcezza passo a passo mitigandola, qualora la si scopra collegata a fatti insignificanti, in balia dei rovesci della sorte, o peggio autoindotta da immagini mentali illusorie, non conformi a realtà.
Epicuro e Filodemo, peraltro, collegano l’ira alla gratitudine. Quest’ultima è il corrispettivo in positivo dell’ira: si è grati a qualcuno quando si ritiene di essere stati da lui beneficiati. Anche in questo caso l’attenzione del soggetto che patisce è spostata verso l’esterno e la passione viene innescata da un giudizio che crea dipendenza da una determinata cosa, persona, situazione: senza di questo sto male; tu me ne fai dono; dunque a te debbo il mio star bene. In ogni caso, far dipendere la propria serenità interiore da ciò che non è sotto il nostro controllo ci mette implicitamente in una situazione di debolezza e precarietà. Infatti la divinità, perfettamente autarchica, è esente da tali emozioni: non prova né rabbia, né riconoscenza.
All’ira può esser sotteso anche il desiderio che l’aggressore riceva un danno. Tale desiderio, a sua volta, sarebbe basato sulla convinzione che questo fatto costituisca per noi un bene, ovvero una giusta rivalsa per l’oltraggio subito. Andando ancora più a fondo scopriamo che dietro codesta convinzione si nasconde la percezione (o la credenza) che l’oltraggio ci sia stato inferto volontariamente. Dunque, alla paura di subire un danno si somma generalmente la nozione di volontarietà o intenzionalità, vera o presunta.
L’ira deriva da un uso disfunzionale dell’aggressività di cui sono dotate per natura tutte le creature viventi
Questo il complesso quadro etico-gnoseologico, umano, del tutto umano, del sentimento di ira: altrimenti si tratterebbe di pura ferocia, istintiva come nelle bestie. Pur manifestandosi naturalmente aggressive le fiere condividono con gli dèi una condizione di purezza e innocenza che le mette al riparo dall’ulteriore sofferenza che gli esseri umani si autoprocurano sottostando ai devastanti effetti delle passioni. Se non fosse per questa non avremmo alcun bisogno della filosofia, né, d’altronde, di quella spiccata socialità che contraddistingue la nostra specie. Ai pericoli oggettivamente dati, infatti, potremmo (e dovremmo) far fronte in maniera comunitaria, raggiungendo il massimo di sicurezza possibile per un mortale.
In natura esiste peraltro una forma di aggressività auto-difensiva e auto-affermativa che l’Epicureo considererebbe del tutto adeguata. Serve, poniamo, a predisporsi alla lotta quando si è assaliti e si corre il rischio di patire ferite gravi o mortali. A renderla accettabile è il fatto che essa sia rivolta, all’occorrenza, verso l’esterno, e non venga successivamente introvertita, divenendo causa di patimento per chi – pur a buon diritto – vi è soggetto. Si tratta insomma di utilizzarla quando strettamente necessario, senza strascichi psicologici di sorta.
Prendersi cura dell’ira significa sottoporre a trattamento terapeutico i propri desideri
L’ira, si è visto, risponde ad una specifica esigenza conoscitiva-interpretativa del reale. In generale essa si sviluppa a partire dalla credenza – erronea – che sia possibile soddisfare i cosiddetti desideri non naturali né necessari, come, per esempio, l’ottenere sicurezza attraverso onori e ricchezze, stimando che essi costituiscano uno scudo contro le frecce della sorte. Eppure le malattie non fanno distinzione tra il povero e il ricco (anche se quest’ultimo, in assenza di un welfare funzionante può accedere, mettendo mano al portafoglio, a cure più adeguate), e, in ultimo, nessuno sfugge alla morte. La cura eccessiva della propria reputazione o l’accumulo compulsivo di denaro ci precipitano in una spirale di affanni che non possono aver fine giacché innaturale è l’impulso ottativo che li ha generati. Da qui l’ira, surplus di afflizione autoprodotta, germinante dalla frustrazione del desiderio, ovvero dal convincimento che tra esso e il suo appagamento si frappongano mille ostacoli esterni, da rimuovere costi quel che costi. Convincimento falso, perché in realtà la sofferenza da cui prende le mosse – e su cui alligna – la collera è frutto di un ben più profondo errore di valutazione: il credere conforme a natura ciò che naturale non è, né in termini di fini – la soddisfazione del desiderio di mettersi al sicuro una volta per tutte dalla morte, ovvero dalla propria finitudine – né di mezzi – notorietà, potere, soldi. Saggezza è dare agio alla nostra vera natura di manifestarsi: le più profonde aspirazioni umane, armonia, beatitudine, sono sempre accessibili nel momento presente, “nudo piacere di vivere”. È già qui, dentro ciascuno di noi, e non richiede mezzi particolari, se non quelli che sono facilmente a disposizione di tutti – e che solo la cieca avidità di alcuni fa sì che siano inegualmente distribuiti o del tutto mancanti per altri: un tozzo di pane, un companatico semplice e genuino, una bella sorsata di acqua di fonte, o al più un bicchiere di vino sincero. In uno stato del genere, la collera non ha modo di palesarsi, perché, se assunto ad abito, esso tende a recidere alla radice l’ondivago, disordinato fluire dei desideri, che s’alimentano di pensieri e atteggiamenti, incongrui, irreali. Il segreto per spegnere la collera, per lenirne i morsi dolorosi quando c’assale, è tutto qui: tenere ben fisso lo sguardo sulla natura delle cose.
Alle radici della collera anche l’ambiguità del desiderio erotico
Tra le bramosie che producono grandi illusioni e, di conseguenza, grandi, rabbiose, delusioni, Lucrezio annovera altresì l’eros se si esprime in maniera abnorme e disfunzionale. Quando realizziamo che non si può possedere appieno l’oggetto del desiderio – trattasi di persona autonoma, con sentimenti e visione del mondo propria, guarda un po’ – ponendo fine allo spasimo prodotto in noi dal desiderio stesso, allora quel che chiamiamo “amore” si volge in odio, l’affetto in sordo rancore: odi et amo, dice Catullo, non riuscendo a darsene conto. Anche forzare oltremisura un istinto naturale produce inevitabilmente afflizione.
L’ambivalenza, del resto, è caratteristica peculiare della passionalità. L’origine dei sentimenti di ira e gentilezza –illustra Lucrezio – è assai prossima. Entrambi derivano da un certo attaccamento a desideri sorti e sviluppatisi con il viver civile. Hanno in sé un qualcosa di “artificiale” come artificiale risulta essere, in certo senso, l’umano consorzio. Rappresentano, insomma, facce della stessa medaglia, in quanto risposte condizionate ad una medesima sensazione di debolezza che allo stato di natura, forse, non è dato provare. Per questo gli animali assomigliano alla divinità. Provano rabbia o manifestano tenerezza rimanendo ben sincronizzati al loro stato attuale, senza costruire vani castelli di carte linguistici e concettuali. Ben ancorati al presente, non oscillano illusoriamente nel passato o nel futuro.
Sfatare il mito del “progresso”
Nessuna forma di progresso civile o tecnologico, in definitiva, ci può mettere del tutto al riparo dall’ansietà e dai timori atavici che ci portiamo appresso. All’appagamento di un determinato bisogno corrisponde sempre la nascita di una nuova forma di dipendenza che ci rende inevitabilmente più fragili, più vulnerabili. “Fuggire in avanti” non serve granché: produce nuove apprensioni, complessi, motivi di competizione. Il meccanismo di formazione dei desideri non ne risulta minimamente intaccato, bensì rafforzato: se ho questo, l’inquietudine mi porta a voler quello, se per avventura mi procuro tot, ecco che, un’ora dopo, quella quantità di roba non mi è più sufficiente. La “dinamicità” del desiderare è di per sé in contraddizione con quella “stabilità” che sola è in grado di donarci quiete (piacere catastematico). Il desiderio non s’acquieta, perché è per natura inquieto. Da qui deriva il tormento della fatica, della frustrazione, della rabbia, indotte da un competere con niente, per niente e su niente: “carriera”, “onori”, “riconoscimenti sociali”, “apprezzamento”, “ammirazione”, “buon nome”, e tutte le altre idiozie per le quali ci mettiamo in competizione l’un con l’altro. La vita può e deve essere molto più semplice. Il saggio epicureo prende congedo da questo modo di stare al mondo, godendosi il puro piacere di essere, al di là delle illusioni, nella dimensione dell’Adesso, di cui la corporeità costituisce il portale d’accesso. Questo il significato più vero del motto làthe biòsas, “vivi nascosto”.
La vera battaglia da vincere si combatte dentro ciascuno di noi
Paradossalmente al diminuire delle minacce esterne, reali, aumenta la possibilità di sviluppare passioni dolorose, generate dalla psiche – “nevrosi” o “psicosi” direbbe Freud – forme di violenza ed aggressività introiettate. Di queste si occupa la filosofia. Da questi mostri, le passioni, dobbiamo guardarci, da questi purgarci. L’anima viene rappresentata da Lucrezio come un campo di battaglia:
Ma se il cuore non è purificato, in quali lotte e pericoli
dobbiamo noi, pur riluttanti, allora gettarci?
Quali, allora, le acerbe spinte del desiderio, che spezzano l’uomo
ansioso, e, insieme, che grandi terrori?
E superbia, egocentrismo, insolenza? Quali terribili
sci9agure creano! E ostentare ricchezza, e l’accidia? (V, 43-48)
Chiaro è qui il rapporto tra disagio interiore ed aggressività rivolta verso l’esterno: abbandonarsi alla collera è in primo luogo un atto autolesionistico, basato sul fatto che non ci si ritiene sufficientemente “buoni”, sufficientemente “capaci” o “accettati” se non si posseggono determinate cose (o sembianze di cose) che, tuttavia, non sono affatto sotto il nostro dominio. Il che – il paradosso è solo apparente – non fa altro che elevare al quadrato quel senso di insicurezza e di frustrazione, ovvero, diremmo oggi, di “disagio esistenziale”, che si vorrebbe attenuare proprio attraverso il possesso di quei presunti beni (denaro, posizione sociale, fama, ecc.). Un comportamento, insomma, che si avvita su se stesso. La frustrazione conduce al disprezzo di se stessi. Il disprezzo di sé alla svalutazione del mondo e delle altre persone. Così monta la collera. Andiamo alla guerra – piccola o grande che sia – per difenderci dal male, per allontanare da noi dolore e morte. E così facendo produciamo a noi stessi e agli altri ancora più angoscia, distruzione, morte. La pace non è una meta, bensì è la via. Chi sconfigge l’ira, restando calmo, prevale nell’unica vera battaglia che è lecito combattere e che si può davvero vincere.
Metodi di lotta del guerriero interiore
Praticare lo stile di vita epicureo significa sostanzialmente muovere “guerra” alle passioni, in particolare all’ira. La collera si combatte con la gentilezza, con l’osservazione attenta, il distacco sereno, attraverso la meditazione dei discorsi e delle massime del maestro. Lui, Epicuro, è celebrato da Lucrezio (e dai suoi discepoli in ogni epoca e contrada del Mediterraneo) come una sorta di salvatore, colui che per primo e in maniera decisiva ha fornito all’umanità gli strumenti per liberarsi dall’inquietudine e dal dolore e incamminarsi verso la pace profonda, adamantina dello stato naturale. Compito della filosofia è quello di aiutarci a conoscere a fondo noi stessi, l’origine delle passioni che ci tormentano, il reale ordine delle cose. Portare luce nelle oscurità della nostra anima.
Incollerirsi per i colpi inflitti dal caso non ha alcun senso. A muovere l’ira, come si è detto, è la credenza che un determinato atto sia compiuto volontariamente a nostro discapito. Ora, se la natura dell’universo non risponde ad alcun criterio teleologico, i mali della vita vanno accettati per quello che sono: inevitabili condizioni naturali. Non c’è nessun colpevole, nessuna punizione, nessun senso di colpa. Ciò che deve accadere, accade e basta. Occorre perdonare a se stessi per ciò che si è, accettare la propria fragilità, “arrendersi alla vita umana”. Questo è il fine della terapia epicurea.
Con quali pratiche? Auto-analisi, meditazione dei testi, applicazione dei concetti epicurei ai propri casi autobiografici, frequentazione della comunità epicurea, vita in comune, sollecitudine nei confronti del prossimo, amicizia e, soprattutto, condivisione e franchezza (parresìa). In due parole, interiorità e comunitarismo. Tutto quello di cui abbiamo bisogno in una società, la nostra, segnata dalle inaudite sofferenze di un individualismo tutto superficie.
Consigli per la lettura
Per chi volesse approfondire l’argomento consiglio l’opera, oramai classica, della filosofa statunitense Martha C. Nussbaum, Terapia del desiderio. Teoria e pratica nell’etica ellenistica, Vita e Pensiero, Milano 1998, in particolare il capitolo settimo dedicato al tema dell’ira nel poema lucreziano, da cui ho tratto alcune delle considerazioni presenti nell’articolo. Per un approccio più autobiografico e coinvolgente al tema della pratica filosofica epicurea il libro di Romano Màdera, psicoanalista junghiano e ordinario di filosofia morale e pratiche filosofiche all’Università di Milano Bicocca, Il nudo piacere di vivere. La filosofia come terapia dell’esistenza, Mondadori, Milano 2006.