Il soldato svizzero Ulrich Braeker prestò servizio nell’esercito prussiano intorno alla metà del Settecento. Anche se la disciplina militare prussiana era particolarmente severa (al punto che, secondo alcuni storici, è stata assunta come esempio e come modello nei primi lager nazisti), tutti gli eserciti settecenteschi esigevano che i loro soldati obbedissero agli ordini in modo meccanico e automatico. La disciplina, inoltre, divenne particolarmente ferrea, per evitare la pratica del saccheggio e le violenze sui civili.
Facevamo piani di fuga. A volte speravamo che oggi o domani potesse riuscirci; altre volte vedevamo davanti a ogni cosa una montagna invalicabile; soprattutto ci spaventava la previsione delle conseguenze di un tentativo fallito. In particolare quasi tutte le settimane sentivamo nuove paurose storie di disertori catturati, i quali anche se avevano adoperato grande astuzia, si erano camuffati da marinai o da altri lavoratori o anche da donne, nascosti dentro botti e barili, tuttavia venivano scoperti. Allora dovevamo vedere come li si faceva passare sotto le bacchette da duecento uomini, otto volte su e giù per una lunga strada, finché essi cadevano senza fiato; e come il giorno successivo dovevano correre di nuovo, con gli abiti lasciati cadere dalle spalle tagliuzzate, e come di nuovo si colpiva là sopra, finchè i cenci intrisi di sangue cadevano loro sui pantaloni. […] Ciò che poi accadeva sulla piazza d’armi ci dava motivo ad analoghe considerazioni. Anche lì non c’era fine all’imprecare e al frustare di giovani nobilotti pronti a far uso del bastone, e al lamentarsi delle percosse. Noi stessi eravamo sempre dei primi sul posto, e ci davamo da fare zelantemente. Ma non ci faceva meno male nell’animo vedere altri trattati per ogni piccolezza in questo modo, senza alcuna misericordia, e noi stessi per tutto il tempo così maltrattati: a dover stare spesso per cinque ore intere, stretti nella nostra uniforme come avvitati, a marciare diritti come pali in tutte le direzioni, e a fare ininterrottamente manovre rapide come il lampo, e tutto ciò agli ordini di un ufficiale che stava davanti a noi col viso furioso e col bastone alzato, e che minacciava tutti i momenti di colpire come sopra cavoli. Con un simile trattamento anche il tipo più robusto doveva diventare mezzo azzoppato, e il più paziente eccitabile. Quando poi ce ne andavamo stanchi morti in caserma, si andava di nuovo a rompicollo a pulire il nostro bucato, e a togliere ogni macchiolina, perché la nostra uniforme era bianca ad eccezione della giubba azzurra. Fucile, giberna [= borsa per le munizioni – n.d.r.], berretto, ogni bottone dell’uniforme, tutto doveva essere lustrato come uno specchio. Se in uno di questi pezzi si mostrava la più piccola improprietà o un capello non stava a posto nella pettinatura, quando si veniva sulla piazza il primo saluto era un grosso colpo di bastone.
(F. Cardini, Quell’antica festa crudele. Guerra e cultura della guerra dall’età feudale alla Grande Rivoluzione, Milano, Il Saggiatore, 1988, pp. 185-186)
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