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Intervista ad Heidegger – Il destino del pensiero nell’età della tecnica (1969)


Un’ottima introduzione al pensiero heideggeriano attraverso un ‘intervista rilasciata dallo stesso filosofo. Il rapporto tra filosofia, tecnica e scienza, Essere e Esserci (Dasein), Tecnica e Gestell, oblio dell’Essere e tradizione filosofica, necessità di una trasformazione dell’essere umano, la missione dell’uomo del futuro.

L’audio originale dell’intervista in tedesco con i sottotitoli in inglese è consultabile all’indirizzo YouTube riportato in calce (https://www.youtube.com/watch?v=vcm05b8m6tQ).

L’INVITATO D’ONORE DI OGGI È IL PROFESSOR MARTIN HEIDEGGER, IL QUALE, IN UNA INTERVISTA TRASMESSA ALLA TELEVISIONE TEDESCA IL 24 SETTEMBRE 1969, PROVA A TRATTEGGIARE QUELLA, CHE A SUO AVVISO, È LA SFIDA CHE LA FILOSOFIA CONTEMPORANEA HA DINANZI A SÉ. INUTILE SOTTOLINEARE LA GRANDE ATTUALITÀ DEL DISCORSO. IL TESTO È STATO TRADOTTO DALL’ORIGINALE TEDESCO. SE IL TEMA È DI VOSTRO INTERESSE CONDIVIDETE CON AMICI E COLLEGHI.

MARTIN HEIDEGGER IN CONVERSAZIONE

WISSER

Herr Professor Heidegger! Nel nostro tempo si sentono sempre più voci, e queste voci diventano sempre più forti, che promuovono un cambiamento delle condizioni sociali come compito decisivo del presente e vedono in questo un punto di partenza promettente per il futuro. Qual è la sua opinione su un tale orientamento del cosiddetto “spirito del tempo”, ad esempio riguardo alla riforma universitaria?

HEIDEGGER

Risponderò solo all’ultima domanda; perché ciò che Lei ha chiesto prima è troppo generico. E la risposta che le darò è quella che ho dato quarant’anni fa nel mio Discorso inaugurale a Friburgo nel 1929. Le cito la frase dalla conferenza “Che cos’è la metafisica”: “I campi delle scienze sono molto distanti l’uno dall’altro. Il modo in cui trattano i loro oggetti è molto diverso. Questa molteplicità frammentata di discipline viene oggi mantenuta insieme solo dall’organizzazione tecnica delle università e delle facoltà e la sua autorevolezza deriva esclusivamente dalla destinazione pratica delle materie. Contro questa situazione, il radicamento delle scienze nel loro fondamento è morto.” Penso che questa risposta dovrebbe bastare.

WISSER

Ora sono motivazioni piuttosto diverse che hanno portato ai tentativi moderni di raggiungere un ri-orientamento degli obiettivi a livello sociale o anche a livello umano e una “ri-strutturazione” delle circostanze fattuali. È evidente che qui c’è molta filosofia in gioco, sia nel bene che nel male. Vede un compito sociale per la filosofia?

HEIDEGGER

No! – In questo senso non si può parlare di un compito sociale! Se si vuole rispondere a questa domanda, bisogna prima chiedersi: “Cos’è la società?” e bisogna riflettere sul fatto che la società attuale è solo l’assolutizzazione della moderna soggettività e che da qui in poi una filosofia che abbia superato il punto di vista di tale soggettività non può affatto partecipare.

Un’altra questione è fino a che punto si può parlare di un cambiamento della società. La domanda sulla promozione del cambiamento mondiale riporta a una frase molto citata di Karl Marx dalle “Tesi su Feuerbach”. Voglio citarla esattamente: “I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; è giunto il momento, ora, di cambiarlo.” Citando questa frase e seguendo questa frase, si trascura che un cambiamento del mondo richiede un cambiamento della concezione del mondo e che una concezione del mondo può essere ottenuta solo interpretando adeguatamente il mondo. Questo significa: Marx si basa su una specifica interpretazione del mondo per richiedere il suo “cambiamento”, e quindi questa frase si rivela essere una frase non fondata. Dà l’impressione che si stia parlando decisamente contro la filosofia, mentre nella seconda parte della frase è implicita proprio la richiesta di una filosofia.

WISSER

Come può oggi la sua filosofia diventare efficace rispetto a una società concreta con i suoi molteplici compiti e preoccupazioni, difficoltà e speranze? Oppure hanno ragione quei suoi critici che sostengono che Martin Heidegger sia così concentrato sull'”essere” da aver abbandonato la condizione umana, l’essere dell’uomo in società e come persona?

HEIDEGGER

Questa critica è un grande malinteso! Perché la questione dell’essere e lo sviluppo di questa questione presuppongono proprio un’interpretazione dell’esistenza, cioè del “Dasein”, cioè una determinazione dell’essenza dell’uomo. E il nocciolo del mio pensiero è proprio che l’Essere, ovvero l’apertura dell’Essere, ha bisogno dell’uomo e che, d’altra parte, l’uomo è uomo solo in quanto si trova nell’apertura dell’Essere. Con ciò la questione se io sia solo occupato con l’Essere e abbia dimenticato l’uomo dovrebbe essere risolta. Non ci si può interrogare intorno all’Essere senza interrogarsi sull’essenza dell’uomo.

WISSER

Nietzsche ha detto una volta: Il filosofo è la cattiva coscienza del suo tempo. Lasciamo in sospeso cosa intendesse Nietzsche con ciò. Ma osservando il suo tentativo di smascherare la storia della filosofia svoltasi sino ad ora come una storia di declino riguardo all’Essere e quindi, potremmo dire, di “distruggerla”, forse qualcuno potrebbe essere tentato di definire Martin Heidegger la “cattiva coscienza della filosofia occidentale”. Qual è, a Suo avviso, il tratto più significativo, per non dire il monumento più caratteristico, di ciò che Lei chiama “oblio dell’essere” e “abbandono dell’essere”?

HEIDEGGER

Prima di tutto devo correggere la sua domanda in un punto, quando Lei parla di “storia di declino”. Questo non è inteso in senso negativo! Non parlo di una storia di declino, ma solo del destino dell’Essere nel senso che si sottrae sempre più alla manifestazione dell’Essere così come essa si rivelava nell’antica Grecia, fino alla manifestazione dell’Essere solo come oggettività per la scienza e oggi solo come risorsa per la gestione tecnica del mondo. Quindi: non si tratta di una storia di declino, ma è un ritiro dell’Essere quello che contraddistingue il momento nel quale ci troviamo. La caratteristica più significativa dell’oblio dell’Essere – e l’oblio è sempre da pensare in riferimento al greco, al termine “Lethe”, cioè al nascondersi, al ritirarsi dell’Essere – bene, la caratteristica più significativa del destino nel quale ci troviamo è – per quanto mi è dato vedere – il fatto che la domanda sull’Essere che io pongo non sia ancora compresa.

WISSER

Lei mette costantemente in discussione e rende problematici due aspetti: la pretesa di dominio della scienza e una comprensione della tecnica che la vede solo come un mezzo utile per raggiungere più velocemente l’obiettivo desiderato. Proprio nel nostro tempo, in cui la maggior parte delle persone ripone tutte le sue speranze nella scienza e in cui viene loro dimostrato nelle trasmissioni televisive in mondovisione, anzi interplanetarie, che l’uomo attraverso la tecnica ottiene ciò che si prefigge, i suoi pensieri sulla scienza e sulla natura della tecnica causano a molte persone non pochi grattacapi. Cosa intende dire, innanzitutto, quando afferma che: “La scienza non pensa.”?

HEIDEGGER

Beh, per cominciare con quello che dice sui grattacapi: penso che sia abbastanza salutare. C’è ancora troppo poca preoccupazione nel mondo oggi e c’è molta incoscienza, che è collegata proprio all’oblio dell’Essere. E questa frase: “la scienza non pensa”, che ha suscitato molto scalpore quando l’ho pronunciata in una lezione a Friburgo, significa: “la scienza non si muove nella dimensione della filosofia”. Tuttavia, senza saperlo, è vincolata a questa dimensione. Per esempio: la fisica si muove nello spazio, nel tempo e nel movimento. Ma cosa sia il movimento, cosa sia lo spazio, cosa sia il tempo, la scienza non può deciderlo in quanto scienza. Quindi, “la scienza non pensa” significa, in questo caso, che essa non è in grado di pensare rimanendo all’interno dei suoi metodi. Non posso, ad esempio, con metodi fisici dire cosa sia la fisica. Ciò che è la fisica posso pensarlo soltanto applicando il modo del domandare filosofico. La frase: “la scienza non pensa”, non è un attestato di biasimo, bensì è solo una constatazione della struttura interna della scienza: fa parte della sua essenza che da un lato dipenda da ciò che la filosofia pensa, ma dall’altro dimentichi e trascuri ciò che deve essere pensato.

WISSER

E cosa intende quando parla del fatto che, per la società di oggi, più grande del pericolo della bomba atomica è la legge della tecnica, il “Gestell“, come Lei chiama il tratto fondamentale della tecnica, che svela il Reale nella forma dell’ordinare come risorsa, in altre parole: rendere tutto e tutti disponibili con un solo clic?

HEIDEGGER

Per quanto riguarda la tecnica, la mia definizione dell’essenza della tecnica, finora non ancora accolta da nessuna parte, è – per essere specifici – che la moderna scienza della natura ha le sue radici nello sviluppo dell’essenza della moderna tecnica e non viceversa. Innanzitutto, va detto che non sono contrario alla tecnica. Non ho mai parlato contro la tecnica, neanche contro il cosiddetto “demoniaco” della tecnica. Ma sto cercando di capire l’essenza della tecnica. Quando si cita questo pensiero sul pericolo della bomba atomica e su un pericolo ancora maggiore della tecnica, penso a ciò che si sta sviluppando oggi come biofisica: che ci metterà in grado, in un prossimo futuro, di modificare e di ricreare l’uomo, semplicemente intervenendo sulla sua essenza organica, in base ai propri desiderata: abile e inetto, intelligente e stupido. Arriveremo a questo punto! Le possibilità tecniche sono già disponibili oggi: i premi Nobel ne hanno parlato in una conferenza a Lindau, come ho dichiarato anni fa in un discorso tenuto a Meßkirch anni fa. Dunque: innanzitutto è da respingere il malinteso che io parli contro la tecnica. Vedo nella tecnica, nella sua essenza, che l’uomo è sotto un potere che lo sfida e di fronte al quale non è più libero – ciò che si sta annunciando qui è un legame dell’Essere con l’uomo – e mi rendo conto che questo legame, che si cela nell’essenza della tecnica, un giorno potrebbe emergere dalla sua attuale invisibilità palesandosi. Non so se ciò accadrà! Ma vedo nell’essenza della tecnica il primo accenno di un segreto molto più profondo, che io chiamo “das Ereignis”, (“l’Evento di appropriazione”), da cui potreste dedurre che non c’è spazio per una resistenza o una condanna della tecnica. Si tratta piuttosto di comprendere l’essenza della tecnica e del mondo tecnico. Secondo me questo non può accadere finché si continua ad operare filosoficamente nell’ambito della relazione soggetto-oggetto. Ciò significa che l’essenza della tecnica non può essere compresa in chiave marxista.

WISSER

Tutte le Sue considerazioni sono fondate e si concludono con quella domanda che è la domanda fondamentale della Sua filosofia, la “questione dell’Essere”. Lei ha sempre sottolineato che non vuole aggiungere una nuova tesi sull’Essere rispetto a quelle già esistenti. Proprio perché l’Essere è stato definito in modi molto diversi, ad esempio come proprietà, come possibilità e realtà, come verità, persino come Dio, Lei è alla ricerca di un’integrazione comprensibile, comune a tutti; e non nel senso di una sintesi superiore, ma piuttosto come una domanda sul significato (Sinn) dell’Essere. Alla luce del Suo pensiero in che direzione si apre una risposta alla domanda: perché gli Essenti e non piuttosto il Nulla?

HEIDEGGER

Devo rispondere a due domande. In primo luogo: la chiarificazione della questione dell’Essere. Credo che ci sia un po’ di confusione nella domanda che mi pone. Il titolo “questione dell’Essere” (Seinsfrage) è ambivalente. Infatti, la questione dell’Essere implica sia la domanda sull’Essente in quanto Essente, sia quella sull’Essere in sé. Nella prima domanda si determina cosa sia l’Essente. La risposta a tale domanda fornisce poi la definizione dell’Essere propriamente detto. Ma la questione dell’Essere può anche essere intesa in quest’altro senso: ovvero, su cosa si basa ogni risposta alla domanda sull’Essente, cioè, su cosa si basa in generale la rivelazione dell’Essere (cioè, il suo Non-Nascondimento)? Per esempio: gli antichi Greci definiscono l’Essere come la presenza dell’ente presente. Nella presenza c’è il presente, e nel presente c’è un momento del tempo, quindi, la definizione dell’Essere come presenza è correlata al tempo. Se cerco ora di definire la presenza dal punto di vista del tempo e guardo nella storia del pensiero cosa è stato detto sul tempo, trovo fin da Aristotele che l’essenza del tempo è determinata da un essere già definito. Quindi: il concetto tradizionale di tempo è inadeguato. E per questo motivo ho cercato di sviluppare un nuovo concetto di tempo e temporalità in termini di apertura estatica in “Essere e tempo”.

L’altra domanda è una domanda che già Leibniz ha posto e che Schelling ha ripreso e che ripeto letteralmente alla fine della mia conferenza “Che cos’è la metafisica?”. Ma: questa domanda ha per me un significato completamente diverso. La concezione metafisica ordinaria di ciò che viene chiesto nella domanda significa: perché c’è qualcosa piuttosto che nulla? Cioè: Qual è la causa o il motivo per cui c’è qualcosa e non nulla?

Io chiedo invece: perché c’è qualcosa piuttosto che molto di più nulla? Perché l’essente ha la priorità, perché non si pensa al nulla come identico all’Essere? Cioè: perché prevale e da dove viene l’oblio dell’Essere?

Si tratta quindi di una domanda completamente diversa rispetto alla domanda metafisica. Cioè: io chiedo “Che cos’è la metafisica?” Non faccio una domanda metafisica, ma chiedo conto dell’essenza stessa della metafisica.

Come vede, queste domande sono tutte eccezionalmente difficili e, per la comprensione comune, in fondo inaccessibili. Richiedono lunghe “osservazioni” e lunghe esperienze e un vero confronto con la grande tradizione. Uno dei grandi pericoli del nostro pensiero odierno, è proprio che il pensiero – e con ciò intendo specificamente il pensiero filosofico – abbia perso il suo rapporto reale, autentico con la tradizione.

WISSER

Evidentemente per Lei tutto si basa sulla decostruzione della soggettività, non su ciò che oggi è enfatizzato, sul concetto di antropologico e di antropocentrico, ovvero non sull’idea che l’uomo, nella conoscenza di sé e nell’azione che compie, abbia già compreso la sua intera essenza. Lei indica all’uomo, invece, di prestare attenzione all’esperienza dell’Esserci, in cui l’uomo si riconosce come Essente aperto al suo Essere e l’Essere si rivela a lui come non-occultamento. La Sua intera opera è dedicata alla dimostrazione che sia necessaria una profonda trasformazione dell’essere umano attraverso l’esperienza dell’Esserci. Intravede segnali che tale pensiero possa diventare realtà?

HEIDEGGER

Come si svilupperà il destino del pensiero, nessuno lo sa. Nel 1964, in una conferenza a Parigi che non ho tenuto personalmente ma che è stata presentata in traduzione francese, ho parlato sul tema: “La fine della filosofia e il compito del pensiero”. Faccio quindi una distinzione tra filosofia, cioè metafisica, e pensiero, così come lo intendo io.

Il pensiero che, in questa conferenza, metto in contrasto con la filosofia – il che avviene soprattutto cercando di chiarire l’essenza del termine greco aletheia -, è sostanzialmente molto più semplice rispetto alla metafisica, ma proprio a causa della sua semplicità è molto più difficile nella pratica.

E richiede una nuova cura del linguaggio, non l’invenzione di nuovi termini, come pensavo una volta, ma un ritorno al contenuto originario della nostra lingua, costantemente in declino.

Un pensatore futuro, che forse sarà chiamato ad accogliere veramente questo pensiero che sto cercando di preparare, dovrà piegarsi a una parola che una volta Heinrich von Kleist ha scritto e che suona così: “Io mi ritiro davanti a uno che ancora non c’è, e mi inchino, un millennio prima di lui, al suo spirito”.

E con questo per oggi abbiamo terminato. Questo uomo millenario che ancora non c’è e che fatichiamo anche a concepire assomiglia un po’ all’Oltre-uomo nietzschiano. Difficile che a generarlo possa essere l’odierna società “occidentale” – se questo aggettivo ha ancora un senso al di là di quello standardizzato della neolingua. Le macchine producono cose ma non partoriscono “stelle danzanti”. Almeno fino a prova contraria. Saluti e buone meditazioni a tutti.

**MARTIN HEIDEGGER IM GESPRÄCH**

**WISSER:**

Herr Professor Heidegger! In unserer Zeit werden immer mehr Stimmen laut, die in einer Veränderung der gesellschaftlichen Verhältnisse die entscheidende Aufgabe der Gegenwart propagieren und den einzigen erfolgversprechenden Ansatzpunkt für die Zukunft sehen.

Wie stehen Sie zu einer solchen Ausrichtung des sogenannten »Zeitgeistes«, etwa hinsichtlich der Universitätsreform?

**HEIDEGGER:**

Ich werde nur auf die letzte Frage antworten, denn was Sie zuvor fragten, ist zu weit gegriffen. Und die Antwort, die ich Ihnen gebe, ist die, die ich vor vierzig Jahren in meiner Antrittsvorlesung in Freiburg im Jahre 1929 gegeben habe.

Ich zitiere Ihnen den Satz aus der Vorlesung »Was ist Metaphysik«:

»Die Gebiete der Wissenschaften liegen weit auseinander. Die Behandlungsart ihrer Gegenstände ist grundverschieden. Diese zerfallene Vielfältigkeit von Disziplinen wird heute nur noch durch die technische Organisation von Universitäten und Fakultäten zusammen- und durch die praktische Zwecksetzung der Fächer in einer Bedeutung gehalten. Dagegen ist die Verwurzelung der Wissenschaften in ihrem Wesensgrund abgestorben.«

Ich glaube, die Antwort dürfte genügen.

**WISSER:**

Nun sind es recht unterschiedliche Motive, die zu den modernen Versuchen geführt haben, innerhalb der gesellschaftlichen oder auch innerhalb der mitmenschlichen Ebene eine Umorientierung der Zielsetzungen und eine »Umstrukturierung« der faktischen Gegebenheiten zu erreichen. Ersichtlich ist dabei viel Philosophie im Spiel, im Guten wie im Bösen.

Sehen Sie einen gesellschaftlichen Auftrag der Philosophie?

**HEIDEGGER:**

Nein! In diesem Sinne kann man von einem gesellschaftlichen Auftrag nicht sprechen!

Wenn man diese Frage beantworten will, muss man zuerst fragen: »Was ist Gesellschaft?« und muss darüber nachdenken, dass die heutige Gesellschaft nur die Verabsolutierung der modernen Subjektivität ist und dass von hier aus eine Philosophie, die den Standpunkt der Subjektivität überwunden hat, überhaupt nicht mitsprechen darf.

Eine andere Frage ist, inwieweit überhaupt von einer Veränderung der Gesellschaft gesprochen werden kann. Die Frage nach der Forderung der Weltveränderung führt auf einen vielzitierten Satz von Karl Marx aus den »Thesen über Feuerbach« zurück.

Ich will ihn genau zitieren und vorlesen: »Die Philosophen haben die Welt nur verschieden interpretiert; es kommt darauf an, sie zu verändern.«

Bei der Zitation dieses Satzes und bei der Befolgung dieses Satzes übersieht man, dass eine Weltveränderung eine Änderung der Weltvorstellung voraussetzt und dass eine Weltvorstellung nur dadurch zu gewinnen ist, dass man die Welt zureichend interpretiert.

Das heißt: Marx fußt auf einer ganz bestimmten Weltinterpretation, um seine »Veränderung« zu fordern, und dadurch erweist sich dieser Satz als nicht fundierter Satz. Er erweckt den Eindruck, als sei entschieden gegen die Philosophie gesprochen, während im zweiten Teil des Satzes gerade unausgesprochen die Forderung nach einer Philosophie vorausgesetzt ist.

**WISSER:**

Wodurch kann heute Ihre Philosophie im Hinblick auf eine konkrete Gesellschaft mit ihren mannigfaltigen Aufgaben und Sorgen, Nöten und Hoffnungen wirksam werden? Oder haben diejenigen Ihrer Kritiker recht, die behaupten, Martin Heidegger sei derart konzentriert mit dem »Sein« beschäftigt, dass er die conditio humana, das Sein des Menschen in Gesellschaft und als Person, drangegeben habe?

**HEIDEGGER:**

Diese Kritik ist ein großes Missverständnis! Denn die Seinsfrage und die Entfaltung dieser Frage setzen gerade eine Interpretation des Daseins voraus, d. h. eine Bestimmung des Wesens des Menschen. Und der Grundgedanke meines Denkens ist gerade der, dass das Sein beziehungsweise die Offenbarkeit des Seins den Menschen braucht und dass umgekehrt der Mensch nur Mensch ist, sofern er in der Offenbarkeit des Seins steht.

Damit dürfte die Frage, inwieweit ich nur mit dem Sein beschäftigt bin und den Menschen vergessen habe, erledigt sein. Man kann nicht nach dem Sein fragen, ohne nach dem Wesen des Menschen zu fragen.

**WISSER:**

Nietzsche hat einmal gesagt: Der Philosoph sei das schlechte Gewissen seiner Zeit. Lassen wir dahingestellt, wie Nietzsche dies gemeint hat.

Betrachtet man aber Ihren Versuch, die bisherige Philosophiegeschichte als eine Verfallsgeschichte im Blick auf das Sein zu durchschauen und deshalb zu »destruieren«, ist mancher vielleicht versucht, Martin Heidegger das schlechte Gewissen der abendländischen Philosophie zu nennen.

Worin sehen Sie das am meisten charakteristische Merkmal, um nicht zu sagen das am meisten charakteristische Denkmal dessen, was Sie die »Seinsvergessenheit« und die »Seinsverlassenheit« nennen?

**HEIDEGGER:**

Zunächst muss ich Ihre Frage in einer Hinsicht korrigieren, wenn Sie von der »Verfallsgeschichte« sprechen. Das ist nicht negativ gemeint!

Ich spreche nicht von einer Verfallsgeschichte, sondern nur vom Geschick des Seins insofern, als es sich mehr und mehr im Vergleich zu der Offenbarkeit des Seins bei den Griechen entzieht – bis zur Entfaltung des Seins als bloßer Gegenständlichkeit für die Wissenschaft und heute als bloßer Bestand für die technische Bewältigung der Welt. Also: es ist nicht eine Verfallsgeschichte, sondern es ist ein Entzug des Seins, in dem wir stehen.

Das am meisten charakteristische Merkmal für die Seinsvergessenheit – und Vergessenheit ist hier immer zu denken vom Griechischen her, von der Lethe, d. h. vom Sich-Verbergen, vom Sich-Entziehen des Seins her – nun, das charakteristischste Merkmal des Geschicks, in dem wir stehen, ist – soweit ich das überhaupt übersehe – die Tatsache, dass die Seinsfrage, die ich stelle, noch nicht verstanden ist.

**WISSER:**

Zweierlei wird von Ihnen immer wieder in Frage gestellt und fragwürdig gemacht: der Herrschaftsanspruch der Wissenschaft und ein Verständnis der Technik, das in ihr nichts als ein taugliches Mittel sieht, schneller zum jeweils gewünschten Ziel zu kommen. Gerade in unserer Zeit, in der die meisten Menschen sich von der Wissenschaft alles erhoffen und in der ihnen in weltweiten, ja weltfernen Fernsehsendungen demonstriert wird, dass der Mensch durch die Technik das erreicht, was er sich vornimmt, bereiten Ihre Gedanken über die Wissenschaft und über das Wesen der Technik vielen Kopfschmerzen. Was wollen Sie erstens damit sagen, wenn Sie behaupten: die Wissenschaft denkt nicht?

**HEIDEGGER:**

Um zunächst mit den Kopfschmerzen zu beginnen: Ich finde das ganz gesund! Es gibt heute noch zu wenig Kopfschmerzen in der Welt und eine große Gedankenlosigkeit, die eben mit der Seinsvergessenheit zusammenhängt.

Und dieser Satz: die Wissenschaft denkt nicht, der viel Aufsehen erregte, als ich ihn in einer Freiburger Vorlesung aussprach, bedeutet: Die Wissenschaft bewegt sich nicht in der Dimension der Philosophie. Sie ist aber, ohne dass sie es weiß, auf diese Dimension angewiesen.

Zum Beispiel: Die Physik bewegt sich in Raum und Zeit und Bewegung. Was Bewegung, was Raum, was Zeit ist, kann die Wissenschaft als Wissenschaft nicht entscheiden. Die Wissenschaft denkt also nicht, sie kann in diesem Sinne mit ihren Methoden gar nicht denken.

Ich kann nicht z. B. mit physikalischen Methoden sagen, was die Physik ist. Was die Physik ist, kann ich nur denken, in der Weise des philosophischen Fragens. Der Satz: die Wissenschaft denkt nicht, ist kein Vorwurf, sondern ist nur eine Feststellung der inneren Struktur der Wissenschaft: zu ihrem Wesen gehört, dass sie einerseits auf das, was die Philosophie denkt, angewiesen ist, andererseits selbst aber dieses zu Denkende vergisst und nicht beachtet.

**WISSER:**

Und was meinen Sie, wenn Sie zweitens davon sprechen, dass größer als die Gefahr der Atombombe für die heutige Menschheit das Gesetz der Technik ist, das »Gestell«, wie Sie den Grundzug der Technik nennen, das Wirkliche in der Weise des Bestellens als Bestand zu entbergen, anders ausgedrückt: alles und jeden auf einen Knopfdruck hin abrufbar zu machen?

**HEIDEGGER:**

Was die Technik betrifft, so ist meine Bestimmung des Wesens der Technik, die bisher noch nirgends aufgenommen worden ist, die – um es konkret zu sagen –, dass die moderne Naturwissenschaft in der Entwicklung des Wesens der modernen Technik gründet und nicht umgekehrt.

Zunächst ist zu sagen, dass ich nicht gegen die Technik bin. Ich habe nie gegen die Technik gesprochen, auch nicht gegen das sogenannte Dämonische der Technik. Sondern ich versuche: das Wesen der Technik zu verstehen.

Wenn Sie diesen Gedanken zitieren mit der Gefährlichkeit der Atombombe und einer noch größeren Gefährlichkeit der Technik, so denke ich an das, was sich heute als Biophysik entwickelt, dass wir in absehbarer Zeit im Stande sind, den Menschen so zu machen, d. h. rein in seinem organischen Wesen so zu konstruieren, wie man ihn braucht: Geschickte und Ungeschickte, Gescheite und Dumme. So weit wird es kommen! Die technischen Möglichkeiten sind heute bereit und wurden schon von Nobelpreisträgern in einer Tagung in Lindau ausgesprochen – was ich in einem Vortrag vor Jahren in Messkirch bereits zitiert habe.

Also: vor allem das Missverständnis ist abzulehnen, als ob ich gegen die Technik sei.

Ich sehe in der Technik, in ihrem Wesen nämlich, dass der Mensch unter einer Macht steht, die ihn herausfordert und der gegenüber er nicht mehr frei ist – dass sich hier etwas ankündigt, nämlich ein Bezug des Seins zum Menschen – und dass dieser Bezug, der sich im Wesen der Technik verbirgt, eines Tages vielleicht in seiner Unverborgenheit ans Licht kommt.

Ob das geschieht, weiß ich nicht! Ich sehe aber im Wesen der Technik den ersten Vorschein eines sehr viel tieferen Geheimnisses, was ich das »Ereignis« nenne – woraus Sie entnehmen möchten, dass von einem Widerstand oder einer Aburteilung der Technik gar keine Rede sein kann. Sondern es handelt sich darum, das Wesen der Technik und der technischen Welt zu verstehen. Meiner Meinung nach kann das nicht geschehen, solange man sich philosophisch in der Subjekt-Objekt-Beziehung bewegt. Das heißt: Vom Marxismus aus kann das Wesen der Technik nicht verstanden werden.

**WISSER:**

Alle Ihre Überlegungen gründen und münden in derjenigen Frage, die die Grundfrage Ihrer Philosophie ist, in der „Seinsfrage“. Sie haben immer wieder darauf hingewiesen, dass Sie nicht zu den bisherigen Thesen über das Sein eine neue hinzufügen wollen. Gerade weil man das Sein recht unterschiedlich bestimmt hat, etwa als Eigenschaft, als Möglichkeit und Wirklichkeit, als Wahrheit, ja als Gott, fragen Sie nach einem verstehbaren Einklang; und zwar nicht im Sinne einer Übersynthese, sondern als Frage nach dem Sinn von Sein.

In welcher Richtung bahnt sich durch Ihr Denken eine Antwort auf die Frage an: Warum ist Seiendes und nicht vielmehr Nichts?

**HEIDEGGER:**

Da muss ich auf zwei Fragen antworten. Erstens: die Klärung der Seinsfrage. Ich glaube, hier besteht eine gewisse Unklarheit in Ihrer Fragestellung. Der Titel „Seinsfrage“ ist zweideutig. Seinsfrage bedeutet einmal die Frage nach dem Seienden als Seiendem. Und in dieser Frage wird bestimmt, was das Seiende ist. Die Antwort auf diese Frage gibt die Bestimmung des Seins.

Die Seinsfrage kann aber auch verstanden werden in dem Sinne: Worauf gründet jede Antwort auf die Frage nach dem Seienden, d. h., worin gründet überhaupt die Unverborgenheit des Seins? Am Beispiel gesagt: Die Griechen bestimmen das Sein als Anwesenheit des Anwesenden. In Anwesenheit spricht Gegenwart, in Gegenwart ist ein Moment der Zeit, also ist die Bestimmung des Seins als Anwesenheit auf Zeit bezogen.

Versuche ich nun, die Anwesenheit von der Zeit her zu bestimmen, und sehe ich mich um in der Geschichte des Denkens, was über die Zeit gesagt ist, dann finde ich von Aristoteles an, dass das Wesen der Zeit von einem schon bestimmten Sein her bestimmt ist. Also: Der überlieferte Begriff der Zeit ist unbrauchbar. Und deshalb habe ich in „Sein und Zeit“ einen neuen Begriff der Zeit und Zeitlichkeit im Sinne der ekstatischen Offenheit zu entwickeln versucht.

Die andere Frage ist eine Frage, die bereits Leibniz gestellt hat und die wiederum Schelling aufgenommen hat und die ich wortwörtlich am Schluss meines schon genannten Vortrags „Was ist Metaphysik?“ wiederhole.

Aber: Diese Frage hat bei mir einen ganz anderen Sinn. Die gewöhnliche metaphysische Vorstellung dessen, was in der Frage gefragt wird, bedeutet: Warum ist überhaupt Seiendes und nicht vielmehr Nichts? Das heißt: Wo ist die Ursache oder der Grund dafür, dass Seiendes ist und nicht Nichts?

Ich frage dagegen: Warum ist überhaupt Seiendes und nicht vielmehr Nichts? Warum hat das Seiende den Vorrang, warum wird nicht das Nichts als identisch mit dem Sein gedacht? Das heißt: Warum herrscht und woher kommt die Seinsvergessenheit?

Es ist also eine ganz andere Frage als die metaphysische Frage. Das heißt: Ich frage „Was ist Metaphysik?“ Ich frage nicht eine metaphysische Frage, sondern frage nach dem Wesen der Metaphysik.

Wie Sie sehen, sind diese Fragen alle ungewöhnlich schwer und für das geläufige Verstehen im Grunde unzugänglich. Es bedarf eines langen „Kopfzerbrechens“ und einer langen Erfahrung und einer wirklichen Auseinandersetzung mit der großen Überlieferung. Eine der großen Gefahren unseres Denkens ist heute gerade die, dass das Denken – also im Sinne des philosophischen Denkens – keinen wirklichen ursprünglichen Bezug mehr hat zur Überlieferung.

**WISSER:**

Ersichtlich kommt Ihnen alles auf den Abbau der Subjektivität an, nicht auf das heute Großgeschriebene, das Anthropologische und Anthropozentrische, nicht auf die Vorstellung, dass der Mensch im Wissen, das er von sich hat, und im Tun, das er bewerkstelligt, bereits sein Wesen erfasst habe. Sie weisen den Menschen an, stattdessen auf die Erfahrung des Da-seins zu achten, in der sich der Mensch als seins-offenes Wesen erkennt und das Sein sich ihm als Un-verborgenheit gibt. Dem Nachweis der Notwendigkeit einer solchen Verwandlung des Menschseins aus der Erfahrung des Da-seins gilt Ihr gesamtes Werk.

Sehen Sie Anzeichen dafür, dass dieses als notwendig Gedachte wirklich wird?

**HEIDEGGER:**

Wie das Schicksal des Denkens aussehen wird, weiß niemand. Ich habe im Jahre 1964 in einem Vortrag in Paris, den ich nicht selber gehalten habe, der in französischer Übersetzung vorgetragen wurde, unter dem Titel gesprochen: „Das Ende der Philosophie und die Aufgabe des Denkens“. Ich mache also einen Unterschied zwischen Philosophie, d. h. Metaphysik, und dem Denken, so wie ich es verstehe.

Das Denken, das ich in diesem Vortrag gegen die Philosophie absetze – was vor allem dadurch geschieht, dass eine Klärung des Wesens der griechischen ἀλήθεια (aletheia) versucht wird -, dieses Denken ist der Sache nach im Verhältnis zum metaphysischen sehr viel einfacher als die Philosophie, aber gerade seiner Einfachheit wegen im Vollzug sehr viel schwieriger.

Und es verlangt: eine neue Sorgfalt der Sprache, keine Erfindung neuer Termini, wie ich einmal dachte, sondern einen Rückgang auf den ursprünglichen Gehalt unserer eigenen, aber ständig im Absterben begriffenen Sprache.

Ein kommender Denker, der vielleicht vor die Aufgabe gestellt wird, dieses Denken, das ich vorzubereiten versuche, wirklich zu übernehmen, der wird sich einem Wort fügen müssen, das einmal Heinrich von Kleist niedergeschrieben hat und das lautet:

„Ich trete vor einem zurück, der noch nicht da ist, und beuge mich, ein Jahrtausend ihm voraus, vor seinem Geiste.“

Autore:

Ho studiato filosofia presso l'Università degli Studi di Roma “La Sapienza” e mi sono laureato nel 1990, relatore il prof. Gabriele Giannantoni, con una tesi in storia della filosofia antica intitolata "Vivere significa morire: analisi di alcuni frammenti eraclitei". Sono socio della SFI - Società Filosofica Italiana di cui curo il sito web. Da alcuni anni mi interesso di Pratiche Filosofiche e Consulenza Filosofica, collaborando con riviste scientifiche del settore, sulle quali ho all'attivo decine di pubblicazioni. Dal 2004 svolgo la professione di Consulente Filosofico e ho promosso una serie di iniziative filosofiche (Caffè Philo, Dialogo Socratico, Seminari di gruppo) aperte al pubblico. Attualmente insegno filosofia e storia presso il Liceo "I. Vian" di Bracciano (Liceo Classico sezione X). Utilizzo la filosofia in pratica sia durante le lezioni ordinarie che in altre "straordinarie" occasioni (passeggiate filosofiche nel bosco, dialoghi socratici a tema, ecc.). A scuola provo a tener aperto uno "sportello" di consulenza filosofica rivolto ai grandi ed ai meno grandi.

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