Pubblicato in: pratica filosofica

Filosofia clinica


Filosofia clinica
Cari colleghi, quella che segue è una breve “ricognizione” intorno alla Filosofia Clinica così come è stata concepita e viene praticata in Brasile. Gli scritti che ho tradotto dal portoghese sono tratti dal sito http://www.filosofiaclinica.com.br, e appartengono a Lúcio Packter fondatore dell’omonimo Istituto che da circa 13 anni opera per la formazione dei filosofi clinici e per la promozione professionale e sociale della disciplina. Il primo, brevissimo, fornisce alcune definizioni di massima, sui fini e sui metodi della Filosofia Clinica. Il secondo, molto più ampio riporta alcuni passi dell’introduzione del libro di Packter e l’intero capitolo 1 dello stesso. Ho preferito proporvelo in versione quasi integrale in modo che possiate valutarne, oltre ai contenuti, lo stile espositivo e l’incedere delle argomentazioni. Al di là delle impressioni che ne ricaverete e dell’utilità dello stesso per il nostro percorso formativo – che, immagino, saranno oggetto di dibattito nel corso delle prossime riunioni – vorrei soffermarmi brevemente sulle differenze di approccio e di mentalità che avrete modo di sperimentare in prima persona.
Quello che mi interessa sottoporre alla vostra attenzione è l’insieme degli assunti, per così dire, “impliciti” che stanno alla base dell’approccio filosofico-clinico. Innanzitutto, la totale assenza di scrupoli nel definire “clinico”, ovvero terapeutico, questo genere di approccio filosofico, che taglia alla maniera di Alessandro il nodo gordiano del ruolo e del fine della pratica filosofica “consulenziale”. Senza mezzi termini, la Filosofia Clinica è posta come alternativa alle psicoterapie, con un suo statuto ben definito e istituzionalmente rintracciabile nei curricola universitari ed accademici sud-americani. Non a caso, i nostri “colleghi” d’oltreoceano si trovano anni luce avanti per quanto concerne il riconoscimento giuridico e sociale della professione. Lascio a voi decidere se si tratti di una virtù o di un vizio.
D’altra parte il “pragmatismo” (troppo “sbarazzino” e quindi “poco filosofico”?) tutto americano con il quale viene studiata ed esercitata la clinica filosofica non impedisce a Packter di esporre in maniera semplice ma concettualmente efficace quei capisaldi della pratica a lungo discussi anche qui da noi.
Inoltre, la presenza di una metodologia ben strutturata e adeguatamente sviscerata fa da contrappeso a quella, sotto certi aspetti tanto lamentata, “vaghezza” e “leggerezza” achenbachiana, che se può apparire più “filosoficamente” (socraticamente) adeguata, lascia tuttavia il filosofo professionista o aspirante tale (perché di questo deve trattarsi se vogliamo concretamente parlare di Consulenza Filosofica) in balia di quel senso di “indeterminazione” che, certo, non agevola il suo ingresso nel mondo del lavoro, ponendolo in una sorta di “limbo” della considerazione sociale. Ma a questo proposito ho già fatto alcune osservazioni rispondendo alla mail di Ran Lahav, a cui senz’altro vi rimando.
Francesco Dipalo

Come si definisce la Filosofia Clinica
Appunti tratti dal sito http://www.filosofiaclinica.com.br
a) È l’uso della conoscenza filosofica per fini psicoterapici; è l’attività filosofica applicata alla terapia dell’individuo; “Sono attività filosofiche applicate alle possibilità dell’essere umano in quanto si realizza da sé stesso” (Packter); è un nuovo metodo di fare terapia fondato sulle teorie filosofiche a partire dai filosofi classici sino ai contemporanei.
b) Obiettivo della Filosofia Clinica è: “Cogliere quel che c’è di più specifico nell’individuo, conformemente a quello che egli narra di sé stesso durante il processo di terapia; promuovere la cura di sé da parte dell’individuo volta al conseguimento di quei fini che terapeuticamente sono avvertiti come più soddisfacenti in relazione ad una vita in fieri; comprendere come l’individuo si struttura e che cosa in questo strutturarsi è vissuto in termini di mal-essere, di sofferenza” (Nichele Paulo).
c) “Dai Greci ad oggi – nonostante le innumerevoli controversie intercorse tra gli stessi filosofi – è compito specifico ed inalienabile della filosofia la comprensione di quella che sarebbe la maniera migliore di vivere per l’essere umano, tanto in ambito privato, quanto in ambito pubblico. È in questa prospettiva che si inserisce la Filosofia Clinica, specialmente nella situazione della terapia, promuovendo ed instaurando una nuova esperienza di comprensione dell’individuo in relazione a quei modi di essere che gli risultano problematici e gli causano una incomparabile sofferenza. In questo senso, la forma terapeutica realizzata dalla Filosofia Clinica non si avvale né di farmaci, né di concetti e procedimenti psicanalitici o dei più recenti orientamenti di stampo mistico-corporale. Al contrario, parte dal presupposto che le nozioni filosofiche applicate al dialogo tra il filosofo e il suo con-dialogante sono “cliniche” nella misura in cui costui elabora e sperimenta in prima persona una nuova maniera di pensare a sé stesso e al suo agire più quotidiano e concreto. Tuttavia, non si tratta qui di una
“terapia filosofica” o di una “discussione filosofica” che funzioni come una specie di indottrinamento della persona o come una “chiacchierata” puramente razionale, svincolata da quelle esperienze concrete o esistenziali che realmente muovono il con-dialogante verso una vita migliore o peggiore” (Alexandre Bueno).
Metodo della Filosofia Clinica
Nell’esercizio della Filosofia Clinica ci sono più metodi, non uno solo.
STORICISMO: Interpretazione di fatti, concetti, eventi nella vita personale ed implicazioni attuali e future.
FENOMENOLOGIA: Ricerca di ciò che piace; divisioni successive alla ricerca del dato intenzionale.
EMPIRISMO ED ANALISI DEL LINGUAGGIO: Ricercare le relazioni tra concetto e termine.
EPISTEMOLOGIA: Ricercare il contenuto dei termini.
LOGICA FORMALE: Viene utilizzata nell’esame delle categorie.
MATEMATICA SIMBOLICA.
Brani tratti da Filosofia Clínica – Propedêutica
di Lúcio Packter
traduzione dal portoghese di Francesco Dipalo
Introduzione
[…] In mezzo a questo contesto storico (ossia gli anni ’80 n.d.t.) iniziai a ricercare qualcosa che più tardi si chiamerà Filosofia Clinica.
Quasi quindici anni dopo, quando finalmente nel 1994 aprii in Porto Alegre (Rio Grande do Sul al confine con l’Argentina n.d.t.) l’Istituto Packter (il nome è un omaggio al mio nonno paterno), le mie ricerche erano già -informalmente- conosciute e commentate, nonostante che i miei colleghi non avessero un’idea più precisa del contenuto del mio lavoro. I commenti dipingevano il quadro di nuova teoria basata sulla consulenza (alla lettera “consiglio” n.d.t.), simile a quella messa in atto dai filosofi olandesi o su qualche terapia d’appoggio. Alcuni commenti erano proprio divertenti, come quando una sera in un locale a pochi chilometri da Porto Alegre a Viamão, un collega filosofo spiegò con cautela -proprio a me- che cos’era esattamente la Filosofia Clinica, di cui fino ad allora non aveva mai sentito parlare. Malgrado tutto, ciò che stava per accadere era insperato. Provocò un impatto molto forte e mi emozionò.
Immaginatevi che cosa può essere aprire un Istituto per “lavorare la filosofia”, per specializzare filosofi nel settore clinico, per di più in una città considerata uno dei punti nevralgici della psicanalisi in America Latina, senza contare la confusione in famiglia, con gli amici, con i meno amici, e con quelli che amici non lo erano mai stati… Decine di aspetti giuridici, piccolezze contabili, dispositivi di legge a destra e a manca, autorizzazioni, licenze, copia di diploma da registrare presso commissioni, uffici notarili, imposte, mio Dio! E in più, manco a dirlo, tutta la cricca di quelli contro!
Ebbene, accadde che pur in mezzo a simili temperie, i miei professori universitari -in persona- e i miei colleghi della Facoltà di Filosofia vennero all’Istituto ad iscriversi al corso di formazione in Filosofia Clinica…! – contendendosi i posti liberi nelle due classi iniziali. Un buon inizio!
Quello che si è verificato da quel momento in poi è stato un bel sogno che ho vissuto sino ad oggi.
I filosofi clinici si sono riuniti, hanno creato centri in varie città brasiliane, molti di loro si sono specializzati in Filosofia Clinica per l’infanzia, per malati terminali, per obesi, adolescenti, gruppi, per consulenza d’impresa, hanno portato la clinica filosofica in collegi, facoltà ecc. Si è dato vita ad una commissione etica e dopo mesi di lavoro si è licenziato un codice deontologico; l’Istituto Packter ha assunto personale ausiliario in ambito amministrativo e contabile e ha costruito dopo accurata indagine una statuto giuridico per la professione fondato sulla vigente Costituzione Brasiliana; abbiamo preso contatto con il Ministero dell’Educazione, legalizzato la nostra documentazione a tutela della nuova professione e creato una Commissione ad hoc per la creazione di nuovi corsi di formazione con lo scopo di valutare la qualità della formazione dei filosofi clinici.
La Filosofia Clinica è la filosofia accademica applicata per uso clinico, esercitata unicamente da filosofi formati nelle acoltà riconosciute dal Ministero dell’Educazione. Il discorso, quindi, è rivolto esclusivamente ai filosofi. Con questo intendo dire che sarebbe assolutamente anti-etico e truffaldino se se i filosofi clinici non fossero innanzitutto laureati in filosofia. All’Università apprendiamo Teoria della Conoscenza o Epistemologia, Etica, Logica, Ontologia, Metodologia, Filosofia della Scienza, della religione, della Storia, del Linguaggio, Metafisica, Storia della Filosofia, le teorie di almeno una decina di filosofi fondamentali, e molto altro. Questi insegnamenti sono alla base del nostro approccio clinico.
Il filosofo clinico usa le sue conoscenze filosofiche, in base ad un metodo ben fondato, per una terapia incentrata sulla persona.
Definire a chi si rivolge il lavoro del filosofo clinico è fin troppo semplice e generale: a tutti coloro che richiedono i suoi servizi, come terapeuta, con l’intenzione di applicare la filosofia -vivificandola- a questioni esistenziali. Per esempio: dalla consulenza alle imprese alla terapia di gruppo o individuale, dalla terapia
comunitaria al supporto delle istituzioni o ancora alla valutazione dei sistemi ideologici.
Per ora non è mia intenzione approfondire i temi legati alle indicazioni metodologiche, ai fondamenti epistemologici e alla bibliografia, di cui tratterò in seguito. Il mio obiettivo è mostrare la clinica filosofica come è nella pratica concreta per poi passare al discorso sul metodo. Al lavoro.
1. Come funziona
In un pomeriggio assolato, il filosofo clinico si trova nel suo studio, situato in un vecchio ed ameno bungalow, fumando la sua pipa e deliziandosi con la lettura di alcuni passi di Seneca, in cui si raccomanda il raccoglimento in sé stessi, “poiché la relazione con persone troppo differenti perturba il nostro equilibrio” ecc., quando gli si presenta un vecchio pescatore alla ricerca di qualcuno che lo ascolti. L’uomo, per citare alla lettera, appariva “magro e secco e aveva la parte posteriore del collo solcata da rughe profonde. Le chiazze scure che i raggi del sole provocano sempre nei mari tropicali gli riempivano la faccia, estendendosi lungo le braccia, e le sue mani erano ricoperte di cicatrici profonde, causate dalla frizione di lenze taglienti cui avevano abboccato pesci enormi e pesanti. Tuttavia, nessuna di queste cicatrici era recente. Tutto quello che c’era in lui era vecchio, ad eccezione degli occhi che erano del colore del mare, allegri ed indomabili.”
Dopo essersi presentato, il vecchio pescatore comincia ad esporre il motivo che lo ha portato a rivolgersi ad un filosofo, come vedremo in seguito.
Ma in primo luogo è necessario porci una domanda fondamentale: qual è il punto di partenza del filosofo clinico nel ricevere il vecchio pescatore?
Si noti che il vecchio pescatore era apparso dal nulla chiedendo di conversare, il filosofo clinico non lo conosceva né lo aveva mai incontrato prima.
Dunque, come si inizia la pratica clinica?
La risposta è molto semplice.
Il filosofo si ricorda subito che, più di duemila e cinquecento anni fa, esistevano decine di pensatori che tentavano di dare una spiegazione a quasi tutti i fenomeni, dai desideri umani ai misteri delle stelle. Un gruppo ben assortito, tutti logomachi da far invidia ai commentatori sportivi. In pratica, erano capaci di parlare bene o male di qualunque cosa, in base all’onorario loro corrisposto. Tra di loro c’era un uomo, Protagora, che insegnò che “ogni cosa è per me come essa mi appare; ed è per te così come ti appare”. Raccolse il suo pensiero nella massima “l’uomo è la misura di tutte le cose”.
Voglio fare alcuni esempi per rendere il concetto più chiaro.
Riflettete se non vi è già capitato di sentir dire da qualcuno: “Il mondo è dei furbi; ricco è il ladro; qui si fa e qui si paga; le donne sono tutte uguali; gli uomini non valgono nulla; la vita passa veloce come un sogno; il vero amore non esiste; chi vede la faccia non vede il cuore; tutti gli uomini politici mentono; quello che brucia fa bene; chi tace acconsente; meglio solo che male accompagnato; chi sta sempre ad aspettare si stanca; chi va piano va sano e va lontano; è necessario amare per essere riamati; solo l’amore costruisce; la vendetta è un piatto che si consuma freddo; chi dice quello che vuole, ascolta quello che non vuole; chi ha fretta mangia crudo; ecc. [seguono altri modi di dire, frasi fatte e luoghi comuni, n.d.t.].
Ebbene, Protagora ci ha insegnato che questo è così per le persone che lo dicono (e lo pensano) – perché sono loro la misura di tutte le cose che dicono rispetto ad esse!
Se una persona dice: “Solamente chi è stato amato può a sua volta amare!” – se afferma questo, se lo pensa davvero, non ha alcuna importanza che io sia d’accordo o meno; importa soltanto che probabilmente le cose stanno così per lei. È questo il criterio che usa per vivere le esperienze concrete che sono in relazione con questa idea.
Non si tratta qui di sapere se l’idea espressa da quella persona è giusta o sbagliata (sempre ammesso che si possa stabilire con certezza!), se è buona o cattiva (idem), se sta dicendo la verità oppure se mi sta ingannando, fingendo di dire la verità. Niente di tutto ciò.
La prima lezione fondamentale nella Filosofia Clinica è che quello che una persona sente, vive, afferma, immagina, fa – è così per lei -, indipendentemente dall’essere condiviso da altre persone, dell’essere accettato, criticato, fatto oggetto d’ironia, proibito e via dicendo. Ognuno è “la misura di tutte le cose”, come ebbe a dire il nostro primo filosofo. Per questo ciascuno di noi sente in prima persona un bacio affettuoso, l’aroma del caffè, il vento fra i capelli, la lettura di un poema o l’ascolto di una bella canzone d’amore, la morbida carezza di una notte di luna, ciascuno vive ogni cosa in un modo unico ed irripetibile, ed è lui a conoscere il piacere o il dispiacere di quanto sta effettivamente vivendo, dal momento che spetta a lui valutare ciò che vive, a lui soltanto… quantunque adotti gli stessi criteri di valutazione di qualcun altro.
Protagora ha scritto: “L’uomo è la misura di tutte le cose, di quelle che sono per quello che sono, di quelle che non sono per quello che non sono”.
Molti secoli dopo, un altro filosofo, Arthur Schopenhauer, fece sua la tesi protagorea e insegnò che “il mondo è una mia rappresentazione”, ma fece anche presente che il mondo va ben oltre tale rappresentazione.
Cerchiamo di spiegare questo concetto.
Per quanto tu possa essere intelligente, teoreticamente profondo, umanamente meraviglioso, studioso e prodigioso sotto tutti gli aspetti, anche così il mondo presenterà milioni e milioni di aspetti che non conosci o che nemmeno immagini. È questo quello che intende dire Schopenhauer, chiaro?
Vale la pena riportare qui un piccolo brano del filosofo:
“Il mondo è una mia rappresentazione… Quando l’uomo acquisisce questa coscienza, allora sa con certezza chiara che non conosce il sole e nemmeno la terra, ma solo che ha un occhio che vede il sole e una mano che sente il contatto con la terra: sa che il mondo
circostante esiste solamente come rappresentazione, ossia, sempre e solamente in relazione con un altro essere, con l’essere che lo percepisce, con sé stesso… Tutto quello che il mondo include o può includere è innegabilmente dipendente dal soggetto, non esistendo se non per il soggetto. Il mondo è rappresentazione”.
Tuttavia, ci troviamo ora dinanzi ad un problema veramente serio. È impossibile proseguire senza prima averlo affrontato.
Proviamo ad riflettere su questo: se ogni persona ha un’opinione esclusivamente sua, se vive ogni avvenimento alla sua maniera, se quella cosa è corretta, nobile, buona, giusta, veritiera, carina, gradevole, se tutto ciò è così solo per lei all’interno del mondo che si è privatamente rappresentato, ebbene come si può parlare di verità? La verità generalmente intesa che è tale per tutti quanti noi? Non sarà mica che, dopo aver premesso tutto questo, finiamo per precipitare in una confusione concettuale tale da rimanere invischiati nel più assoluto ed inconcludente relativismo?
Che sarebbe allora del mondo e di noi se ciascuno si limitasse a fare quello che gli appare buono, argomentando che, per quanto gli riguarda, sta agendo per il meglio?
Provate ad immaginare due persone che si mettono a litigare per il fatto che hanno punti di vista divergenti su una medesima questione!
– “Ebbene, è soltanto la tua rappresentazione! – dice l’uno.
– E quello che mi stai dicendo a proposito della mia rappresentazione è solamente la tua rappresentazione! – affermerebbe l’altro.
– È la tua!
– Manco per niente, è la tua!”
Che stress…
C’è stato un filosofo che ha affrontato questo problema in una delle sue opere nel 1873. Si tratta di Nietzsche, che ha spiegato molto bene una tale confusione raccontando una breve storia. Eccola qui:
“In un remoto cantuccio dell’universo scintillante che si dispiega in un infinita processione di sistemi solari, c’era una volta un astro, dove degli animali intelligenti inventarono la conoscenza. Si trattò del minuto più superbo e più bugiardo della “storia universale”: ma fu anche soltanto un minuto. Dopo pochi respiri della natura l’astro si congelò, e gli animali intelligenti si estinsero.
Qualcuno potrebbe inventare un’altra favola del genere, senza per questo riuscire ad illustrare a sufficienza quanto penoso, quanto fantasmagorico e fugace, quanto senza finalità e gratuito sia l’intelletto umano all’interno della natura. Ci sono state eternità nelle quali non era presente; e quando di nuovo sarà passato, sarà come se non fosse successo nulla. Poiché non esiste alcuna missione per quell’intelletto al di là del semplice condurre la vita umana. Al contrario esso è umano, ed è solamente il suo possessore ed utilizzatore che lo considera in modo tanto patetico come se il mondo intero girasse intorno a lui.”
Non vi spaventate con lo stile di Nietzsche, vi prego. Il nostro amico di solito scriveva con la stessa verve di chi si è appena scolato un intero bricco di caffè puro da solo!
Traducendo il nostro inquieto filosofo, potremmo dire che le verità di un’ape non sono necessariamente le verità di un piccolo orso panda, che a loro volta non sono le verità di una roccia collocata sul suolo lunare, che a loro volta non sono le verità di una persona.
Così un filosofo clinico che lavora in un complesso residenziale ai piedi di una collina in una delle grandi città latino-americane, può ascoltare lo stesso aneddoto raccontato da John Steinbeck in Of Mice and Men, nel 1937, sebbene in modo estemporaneo:
“Tutti quanti vogliono un pezzettino di terra, non molto. Una cosa che appartenga a loro soltanto. Un posto in cui si può vivere senza correre il rischio di essere buttati fuori. Io non ho mai avuto nulla del genere. Ho già lavorato la terra e seminato per tutti i disgraziati di questo stato, ma non erano mie le messi, e quando mietevo il raccolto non mi apparteneva. Ma ora tutto ciò muterà, potete starne certi… Io, Lennie e George. Finalmente avremo un pezzettino di terra tutto nostro. E un cane, conigli e galline. E inoltre molto verde e, chi lo sa, forse addirittura una vacca o una capra.”
Questo tizio non parla del mio o del suo mondo. È sempre, in qualche modo, il suo mondo, il mondo così come lo intende e lo vive in prima persona. Un altro uomo, al suo posto, potrebbe fare considerazioni molto diverse.
In Filosofia Clinica ci sono due tipi fondamentali di verità.
La cioccolata calda, cremosa che le vostre labbra assaporano, i sentimenti di affetto che sperimentate, le vostre opinioni, le vostre conoscenze, il suono distante di un flauto di legno che giunge sino alle vostre orecchie, i colori delicati dell’autunno, il profumo dei capelli della persona amata, queste sono le vostre verità. Dunque, il primo tipo di verità è quella verità che abita il tuo cuore, le tue cellule, te.
Il secondo fondamentale tipo di verità è la verità convenzionale, consensuale, stabilita insieme a tutti gli altri. In questo modo il segnale verde del semaforo indica che si può passare, le ore segnate dall’orologio rappresentano un criterio di tempo, la parola “miele” ha un significato o più di uno (p.e. in senso metaforico “dolcezza”, n.d.t.) conformemente alle convenzioni, e via dicendo.
Molte volte con la verità soggettiva di una persona si può armoniosamente concordare, oppure entrare in conflitto, negarla, espanderla, o rifletterci sopra o ancora evitare la verità convenzionale. Immagina che cosa accadrebbe se dovessi innamorarti delle donne dei tuoi amici, proprio nella società in cui viviamo… Pertanto, sebbene ciascuno abbia una verità propria, questo non significa che una persona abbia il diritto di fare quello che vuole senza dover rendere conto delle sue azioni.
Allora, andiamo avanti.
Il filosofo ha ricevuto nel suo consultorio la visita del vecchio pescatore alla ricerca dei suoi servizi, e ora il filosofo clinico già sa che tutto quello che il vecchio pescatore si appresta a dire o a fare sarà solamente espressione di come le cose sono dal punto di vista dello stesso pescatore. Se affermerà che la vita è buona o cattiva, difficile o facile, breve o lunga, sofferta, felice, giusta, dura, laboriosa, alla fine questo dimostrerà solamente che è così per il pescatore.
Di conseguenza, possiamo considerare che il filosofo ha cominciato bene il suo lavoro.
Ma c’è un’altra cosa importante che ho bisogno di precisare.
Quando il pescatore si era presentato al bungalow del filosofo, il filosofo lo aveva guardato attentamente e gli erano passate per la testa le seguenti considerazioni:
“Ecco un uomo pieno di vita, lavoratore, indurito dal sole e dalla vita, profondo conoscitore dei movimenti dei sette mari, un marinaio, povero, umile, un uomo che merita tutto il mio rispetto.”
Aspettate un attimo, di che stiamo parlando?
Prima ancora che il vecchio pescatore avesse pronunziato una sola parola, il filosofo già stava elaborando e deducendo un numero considerevole di giudizi…!
Ma questo è clinicamente certo?
In fin dei conti, il filosofo non ha nemmeno lasciato che il visitatore si manifestasse e già ha notato tante cose… Le prime impressioni potrebbero rivelarsi del tutto fallaci.
Con molta discrezione, voglio ripetere qui che questo è assolutamente inevitabile.
Quando ti troverai dinanzi al maestoso fiume Guaìba, che scorre sinuoso circoscrivendo una buona metà della capitale gaùcha (Porto Alegre, n.d.t.), fino ad un attimo prima di vederlo già te lo sarai prefigurato mille volte. No, non c’è nessun problema. Un filosofo chiamato Hans Georg Gadamer ha studiato i cosiddetti pre-giudizi. I pre-giudizi sono “verità” di cui la gente si carica per farci i conti, in un secondo tempo, quando si troverà a vivere nuove esperienze.
Per esempio, pur senza conoscere direttamente il vecchio pescatore, il filosofo clinico è già giunto a questa conclusione: “Ecco un uomo pieno di vita, lavoratore, indurito dal sole e dalla vita, profondo conoscitore dei movimenti dei sette mari, un marinaio, povero, umile, un uomo che merita tutto il mio rispetto.” Ma il pescatore potrebbe essere esattamente l’opposto di quello che il filosofo ha pensato.
Nello stesso modo, quando qualcuno decide di rivolgersi al filosofo clinico, è possibile si sia creato molte aspettative preconcette prima di conversare realmente con lui: “Chissà se mi considererà normale, spero non mi bombardi di domande, chissà che non mi obblighi a leggere qualche libro noioso, quanto mi farà pagare, mi sa che mi sottoporrà ad analisi”.
Pre-giudizi, dunque.
Una ragazza può recarsi ad un ballo con tanti di quei pregiudizi sgradevoli che ancor prima d’essere giunta alla sala da ballo può provare il desiderio di tornare a casa. In altri casi, invece avrà tanti buoni pregiudizi che il suo cuore si scioglie letteralmente in una charade di emozioni così forti, in tanta voluttà, non appena soltanto s’immagina di star lì al centro della pista da ballo.
Bene, dunque il filosofo clinico già sa che tutto quello che il vecchio pescatore dirà o farà, non servirà ad altro che a mostrare come stanno le cose per lo stesso pescatore e che, in qualche modo, il filosofo già inizierà la pratica clinica con un piccolo bagaglio di pregiudizi (che più tardi possono finire tranquillamente nella spazzatura).
Sin qui spero sia tutto chiaro. Ma approfondiamo ulteriormente le nostre conoscenze.
Il vecchio pescatore trasse a sé una sedia col fondo in paglia, si mise comodo ed cominciò un racconto che riporto alla lettera:
“Il letto è il mio amico. È del letto che ho bisogno. Lo aspetto con grande impazienza. È facile quando ci si sente vinti. Io non ero mai stato sconfitto e non sapevo quanto fosse facile. Che cos’è che mi ha sconfitto? Niente. Sono stato troppo lontano, accadde quel che accadde”.
Quindi il vecchio pescatore proseguì la sua storia:
“Non posso continuare a pensare queste sciocchezze. La fortuna è una cosa che si presenta in molte forme diverse e chi è in grado di riconoscerla? Per conto mio accetterei un sacco di fortuna, fosse quel che fosse la forma sotto la quale si presentasse e pagherei qualunque cosa per averla. Mi piacerebbe poter vedere lo
sbrilluccicare delle luci. Mi trovo sempre ricolmo di desideri. Ma questo è ciò che desidero di più ora come ora.”
A quel punto, iniziò a raccontare alcune esperienze che un pescatore vive in mare aperto:
“Quando si sta per scatenare un ciclone, si possono sempre scorgere in cielo, giorni prima, alcuni segnali premonitori, se si sta in mare, naturalmente. Sulla terraferma non si può prevedere alcunché perché non ci è dato riconoscere i segnali. Anche la forma delle nuvole dev’essere differente dalla terraferma.”
Si ricordò dei pensieri che gli affollavano la mente quando si trovava sulla sua barca, lontano dalla costa:
“Quando lavoravo sulle barche che davano la caccia alle tartarughe, prestavo servizio sulla forcella dell’albero maestro e anche da quell’altezza mi era dato vedere molte cose. I delfini sembravano più verdi visti dall’alto ed è facile scorgere le strisce e le chiazze color porpora sul loro dorso. Così ero in grado di distinguere tutti i pesci di un branco. Chissà perché tutti i pesci più rapidi delle correnti scure hanno dorsi purpurei e generalmente anche strisce e chiazze purpuree? Il delfino sembra verde perché, in realtà, è dorato. Ma quando è davvero affamato e si alimenta, allora gli si dipingono delle strisce color porpora sui lati, proprio come succede con i pesci spada. Sarà la fame o l’enorme velocità con cui nuotano a produrre queste strisce?”
Per concludere, mi raccontò di una volta quando un grande pesce aveva abboccato al suo amo, quando lottò molto e si sentiva stordito e fiacco. E pensava:
“Sarebbe assurdo che tradissi me stesso e morissi con un pesce di questo genere nelle mani. Adesso che sto quasi per venirne a capo e che tutto sta volgendo per il meglio, prego solo Dio che mi dia la forza di resistere. Direi un centinaio di Pater Noster e un centinaio di Ave Maria. Non non li posso recitare ora. È come se li avessi già recitati, ma lo farò più tardi.”
E terminò il discorso con una frase:
“La luna influenza il mare nella stessa maniera in cui influenza le donne.”
La questione ora è che cosa fare con tutto quello che il vecchio pescatore ha raccontato al filosofo.
Il filosofo deve chiedere più informazioni? Deve rimanere in silenzio affinché il vecchio prosegua la sua storia. Deve concludere che si tratta di un uomo anziano e stanco?
Bene, prima di rispondere, lasciate che vi spieghi che cosa ho appena terminato di fare. Ho preso tra le mani un piccolo e meraviglioso libro pubblicato nel 1952, intitolato “Il vecchio e il mare” di Ernest Hemingway, e semplicemente ho riportato alla lettera dei brani delle esperienze raccontate dal vecchio pescatore Santiago, ma l’ho fatto in maniera assolutamente aleatoria.
Rispettivamente, pagine 125, 122, 65, 76, 91 e 31, da trentacinquesima edizione della Civilização Brasileira, del 1993.
Il mio obiettivo era mostrare che cosa realmente accade nella pratica clinica, nella maggior parte dei casi. Qualcuno si va vivo portando con sé un argomento qualsiasi da trattare: un matrimonio in crisi, la morte di qualche persona amata, stati affettivi precari e dolorosi (angustie, senso di vuoto, ansietà più o meno leggere), stati confusionali, conflitti esistenziali e altri assunti. Il fatto è che questi problemi sono portati ed esposti, in generale, esattamente come le confessioni del vecchio pescatore Santiago: ci sono salti temporali e logici; non c’è alcun collegamento evidente al contesto sociale, storico, geografico; non esiste alcun riferimento certo al quale ancorare fermamente parole, emozioni, vissuti esperienziali.
Riassumendo, mancano le coordinate esistenziali!
In pratica, il filosofo clinico non sa identificare che cosa gli viene “portato” o addirittura risulta addirittura smarrito in quella sequela di situazioni e di fatti che gli si srotola dinanzi.
L’impressione iniziale è che tutto questo materiale esistenziale è sciolto e confuso.
Ma vediamo come si può risolvere il problema.
Sin dall’inizio il filosofo clinico è consapevole del fatto che quanto il visitatore va raccontando è solo qualcosa di immediato e contingente, come se qualcuno si rivolgesse ad un medico con 39 di febbre, con lo scopo di liberarsi dalla febbre, ma il medico, sensatamente, non gli prescrivesse farmaci antitermici e analgesici bensì lo rimandasse a casa raccomandandogli un certo periodo di riposo. Dopodiché darà inizio ad una serie di esami medici per scoprire la causa della febbre: un’infezione, un’infiammazione, o una malattia più grave.
Similmente, il filosofo considera quel che il visitatore gli porta solo come un punto di partenza, ma immediatamente passa a ricercare filosoficamente le interrelazioni associate all’assunto iniziale.
E come opera concretamente?
Dopo i primi minuti di accoglienza e contatto, entrambi dialogano intorno all’assunto immediato così come è stato portato dal visitatore; si tratta di una chiacchierata assolutamente libera. Due persone conversano come farebbero incontrandosi in parco, in una biblioteca, in un incontro casuale al mercato o per strada.
Subito dopo il filosofo dà inizio ad un processo che definiamo “esame categoriale”.

Autore:

Ho studiato filosofia presso l'Università degli Studi di Roma “La Sapienza” e mi sono laureato nel 1990, relatore il prof. Gabriele Giannantoni, con una tesi in storia della filosofia antica intitolata "Vivere significa morire: analisi di alcuni frammenti eraclitei". Sono socio della SFI - Società Filosofica Italiana di cui curo il sito web. Da alcuni anni mi interesso di Pratiche Filosofiche e Consulenza Filosofica, collaborando con riviste scientifiche del settore, sulle quali ho all'attivo decine di pubblicazioni. Dal 2004 svolgo la professione di Consulente Filosofico e ho promosso una serie di iniziative filosofiche (Caffè Philo, Dialogo Socratico, Seminari di gruppo) aperte al pubblico. Attualmente insegno filosofia e storia presso il Liceo "I. Vian" di Bracciano (Liceo Classico sezione X). Utilizzo la filosofia in pratica sia durante le lezioni ordinarie che in altre "straordinarie" occasioni (passeggiate filosofiche nel bosco, dialoghi socratici a tema, ecc.). A scuola provo a tener aperto uno "sportello" di consulenza filosofica rivolto ai grandi ed ai meno grandi.

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