Pubblicato in: pratica filosofica

IL CERCHIO COME METAFORA ESISTENZIALE


Cari cyberamici,
vi presento, qui sotto, il testo relativo alla conferenza/incontro “Il cerchio come metafora esistenziale nella consulenza filosofica” che avrà luogo oggi alle 17 presso Palazzo Marcotulli (Via Garibaldi 241, Rieti). Non è una lettura semplicissima, lo riconosco, ma vi assicuro che l’incontro sarà decisamente più “umano”. L’antologia dei testi filosofici cui faccio riferimento la potete sfogliare dal mio sito.
Buona lettura! FD

 

L’analisi etimologica, se condotta con un certo intento, può rappresentare un esercizio filosofico a se stante: un esercizio di interpretazione, per l’esattezza, un’operazione ermeneutica che serve ad indagare il senso di parole che utilizziamo tutti i giorni. Parole che, una volta ripulite, levigate, smaltate, rivelano in tutta la sua lucentezza l’ambiguità dell’intreccio simbolico da cui scaturiscono e a cui rimandano, la loro natura di “segni”, “tracce”, “orme”, dita puntate verso un ignoto da “discoprire” (a-létheia, gr. la non nascosta, la svelata, la discoperta, ossia la verità), che rappresenta l’intima trama della nostra visione del mondo, collettiva prima ancora che individuale. In questo senso, l’etimologia non è passatempo di dotti, esibizione di un sapere tanto roboante quanto sterile. È indagine di sé, istinto vitale che si fa conoscenza, penetra nella carne, duole e, a volte, purifica.
Senza meraviglia e sconvolgimento, non vi è vera conoscenza. L’esperienza “filosofica”, quella autentica, chiama in causa in prima persona il soggetto praticante, pone in gioco la sua esistenza quotidiana. Il senso delle parole è una rivelazione. Rivela al ricercatore il tessuto vivo del proprio modo d’intendere la realtà, fa sì che egli si metta in discussione radicalmente, e lo invita, infine, a “ri-centrare” la propria condotta di vita.
Di questa risorsa, tra le altre, ci si avvale durante la consulenza filosofica. Il risultato non interessa. Né il consulente, né tanto meno il consultante sono in grado di dire dove tale esercizio li condurrà. Loro si limitano ad armare il naviglio e a svolgere le vele del dialogo. Ma a quali lidi approderanno, nessuno può dirlo a priori. Navigare è tutto. La pratica è assolutamente fine a se stessa. Come il vivere, del resto.
Ma oggi si recita a soggetto. Ho delle persone dinanzi, degli ascoltatori, non una storia autobiografica su cui lavorare insieme ad un con-dialogante. C’è un’immagine che ritorna, anzi una sinfonia d’immagini: cerchio, circolarità, ciclo, ciclicità, centro, centralità. Nell’opera d’arte pittorica il simbolo è nudo, immediato, ed è dotato di una sua consistenza materiale. Dal filosofo, invece, ci si aspetta che utilizzi lògoi per rappresentare la sua visione. E che a differenza del poeta “dis-pieghi” anziché “e-vocare”. Proverò a “spiegare”, ancorché alla fine, se avrò meritato la vostra pazienza, capirete che le parole, tutte quante, in ultima istanza, altro non fanno che “evocare”.
“Cerchio” è il diminutivo di “circolo” e proviene dal latino circus, dal greco kìrkos ovvero “anello”, dalla radice indoeuropea *kr con il senso di “volgere in giro” (in sanscrito c’akra = “ruota”, “sfera”). “Ciclo” viene dal latino cyclus, greco kyklos ovvero “giro”, dalla radice indoeuropea *kwel col significato di “stare intorno”. In ultimo, “centro”, latino centrum, greco kéntron, col significato originario di “pungiglione”, in seguito “punto centrale di un circolo”.
La sfera semantica di questo gruppo di parole potrebbe essere ulteriormente ampliata. La sua ricchezza è paragonabile soltanto alla sua arcaicità. Il “cerchio” è una figura primordiale, che rimanda al rapporto fondamentale dell’uomo con se stesso e con l’ambiente circostante. Prima che “oggetto del pensiero” e della rappresentazione immaginifica, la circolarità attiene alla sfera dell’agire umano, alla nostra corporeità. Provate a pensare a tutte le operazioni quotidiane che rimandano al semplice movimento delle mani, del busto, del corpo, inteso come “volgere in giro”. Per l’homo tecnologicus potrebbe essere il movimento del mouse, oppure il semplice “svitare” la parte superiore della caffettiera. Per il contadino del neolitico il falciare in tondo il frumento o passarne al setaccio le stoppie. Ma a ben guardare, il movimento circolare si estende oltre la sfera antropologica. Il cane, prima di accucciarsi, disegna una serie di giri concentrici intorno al luogo prescelto. Il gesto, nelle savane da cui provengono i suoi antenati, assicurava un comodo giaciglio su cumuli d’erba appiattiti.
La statura eretta garantisce all’uomo un rapporto privilegiato con lo spazio. Appiedato è in grado di scorgere da lontano le sue prede, di leggere i segni del tempo cangiante dallo stormire delle fronde degli alberi, di osservare da lontano il sole che tramonta, tinteggiando le colline tutt’intorno. Larghe volute di fumo a miglia di distanza possono segnalare la presenza di un insediamento noto od ignoto.
Ma è nel cielo che l’uomo si rispecchia. Il cielo è il tetto sotto cui vive. Dal cielo giunge, benedetta, la pioggia che inumidisce i campi e genera la vita, e nelle ore più calde dardeggiano i raggi del sole. Il cielo è la sua mappa. Ad esso si affida per orientarsi. E non è cosa di poco conto: riuscire ad orientarsi per il cacciatore neolitico significa sopravvivere. L’atto del “contemplare” (dal latino cum-temno, ritagliarsi uno spazio, un fazzoletto di cielo da guardare con attenzione), dunque, prima ancora di essere investito di un significato “sacrale” – nella Roma arcaica, ad esempio, gli auguri si ritagliavano una porzione di cielo per osservare il volo degli uccelli e trarne auspici –, aveva un valore pratico, “esecutivo”.
Il cielo è visto come “volta celeste”. A “volgersi” è il sole, di giorno, la luna e le costellazioni, di notte. L’effetto, sull’osservatore antico, era a suo modo “rassicurante”. Tutto cambiava, ma, volgendosi, meravigliosamente tornava al suo posto. Col mutare scandiva il ritmo della vita, in un ciclo perpetuo che dall’ambiente si rifletteva sull’uomo, e dall’uomo sulla natura circonvicina. Le stagioni, che parevano avvicendarsi senza fine, recavano benigne i loro frutti. La veglia e il lavoro nei campi si accordavano con lo spuntar del sole e il suo immergersi nell’orizzonte a violentare altre notti. E il buio della notte era una benedizione per le membra stanche, con la luna a cullare i sogni degli infanti. Vita e morte altro non erano che fasi di un unico ciclo, di un grande anno, di una Vita immensa, sconfinata, al cui andamento circolare tutta la natura prendeva parte.
In questa prospettiva, ci è facile intendere il celebre frammento di Eraclito: “La stessa cosa sono il vivo e il morto, il desto e il dormente, il giovane e il vecchio: questi mutando trapassano in quelli e quelli ritornano a questi.”
Nella Grecia antica, il cosmo è immaginato in termini sferici, immobile come la “ben rotonda sfera” dell’Essere parmenideo o in movimento perpetuo come il fuoco eracliteo, “che a tempo debito – ciclicamente – s’accende e a tempo debito si spegne”. L’immobilità o la mobilità, l’Essere o il Divenire, in un certo senso, dipendono dal punto di vista del soggetto che leva gli occhi al firmamento: ma la sua “solida sfericità” o la sua “fluida circolarità” non vengono messe in questione. Costituiscono un’evidenza originaria.
Ad immagine e somiglianza della volta celeste l’uomo antico costruisce la sua dimora comune, erige le mura “circolari” della pòlis. Il circolo è sacro presso tutte le culture, da un capo all’altro del mondo. Sacro per il popolo dei Sioux, che lo dividono in quattro parti, quattro come i punti cardinali, quattro come le stagioni e le fasi della vita umana. Sacro per gli antichi Germani, il rund, il cerchio della tribù, sia in senso reale – i confini del villaggio – sia in senso metaforico, la gente che la compone. Round, rotonda è la tavola intorno cui si siedono i mitici cavalieri di re Artù.
Con l’avanzare del Cristianesimo – cui corrisponde un’idea di tempo e di storia completamente diversa da quella del mondo antico – il sacro si volge in “magico”, la visione divina della circolarità del tempo e delle stagioni in “paganesimo”, superstizione del villico, presenza diabolica che si manifesta nel sabba stregonico, nel circolo incantato che viene tracciato sulla nuda terra, che protegge ed occulta nel medesimo tempo la strega, colei che nel cerchio sta fissa, “centrata” o che gira in tondo, entusiasta, con le sue compagne. A guidare la danza non è più Dioniso, il dio-fanciullo, ma la sua riedizione in chiave antipagana, il dia-bolus, il grande nemico, che dagli antichi satiri, ispiratori della tragedia antica, eredita l’armamentario simbolico caprino: zampe e zoccoli, barbetta e corni.
La modernità sembra impegnata in una progressiva opera di distruzione dell’idea viscerale di circolo. Nella filosofia di Giambattista Vico le grandi stagioni dell’umano si avvitano a spirale intorno alla retta del tempo storico. Il “cerchio” di Nicola Cusano, che in pieno Quattrocento può ancora rappresentare, a buon titolo, il “divino”, lontano erede dell’indeterminato à-peiron anassimandreo, il “senza confini”, o dell’Uno neoplatonico, si distende allargandosi vieppiù negli assi cartesiani, si smaterializza tendendo all’infinto, si trasforma progressivamente in concetto tecnico-matematico, contraendosi nell’otto adagiato della matematica moderna. Da organismo microcosmico, il corpo umano si muta in macchina. Il “cerchio infranto” diventa così metafora di dis-armonia tra uomo e natura. La tracotanza della téchne baconiana – nosse est posse – mira ad infrangere i confini della “ben rotonda sfera”, a violare la legge eterna di anànche. La natura non va più contemplata, ma sezionata per poter essere dominata.
Che cosa è cambiato nella percezione che l’uomo ha di se stesso e del mondo? Come si diceva, il Cristianesimo ha introdotto in Occidente un’idea diversa di Tempo. Il Dio ebraico dell’Antico Testamento, di cui Cristo è figlio ed erede, sembra essere avverso alla ciclicità. La Creazione dell’universo è atto unico, irripetibile. Con essa ha inizio la Storia, che ha un andamento rettilineo, teleologico, escatologicamente orientato verso l’Ultimo giorno. Da Dio si ritorna a Dio, ma il cammino dell’uomo non si piega più su se stesso, non gira in tondo, non segue più il corso del firmamento. Il suo smarrimento è de-siderante (“sceso giù dalle stelle”, latino de-sidera), vive la lacerazione della trascendenza, dell’esser-gettato-nel-mondo. L’unico tramite, ciò che dà senso e significato ad una Terra in cui il vivere non è più “per-fetto” (per-ficio, latino, completo, concludo, faccio a tutto tondo), è il Cristo, il Dio fatto uomo: “Io sono la Via, la Verità, la Vita.” Una Via rettilinea, comunque la si veda, con passaggi obbligati, irripetibili, laceranti. Il Senso della Terra, quello evocato dallo Zarathustra nietzschiano, si divarica, e divaricandosi si dissipa. L’anello è rotto, infranto. “Principio e fine non fanno uno” (Eraclito), perché dalla nostra prospettiva il circolo non è più vero. In altre parole, la vita non è più degna di essere vissuta come esperienza conchiusa in sé. Il suo significato ultimo le sfugge. Senza il Padre, senza il Suo Bene e Male, siamo orfani e la Terra assomiglia ad uno sterminato orfanotrofio.
È come se, geometricamente parlando, il circolo, sinonimo di unità ed armonia tra uomo e natura, fosse stato spodestato dalla semiretta orientata, dal vettore frecciato: il missile che mira a lacerare il limite estremo, il cielo delle stelle fisse. L’universo tolemaico e la sua adamantina circolarità esplodono nell’infinitezza del mondo newtoniano.
La modernità laicista e tecno-scientista, quella che ha dato il colpo di grazia al Dio cristiano – quanto meno a livello sociologico, fatta salva l’individualità della scelta di fede – pure ne ha conservato in vita l’eredità più coercitiva, ovvero la nozione di tempo lineare. Non è più la Provvidenza a guidare i nostri passi, bensì il Progresso. Che non va verso Dio, oramai defunto, anzi non sa proprio in che direzione andare. Va e basta. Il suo è un andamento – apparentemente – rettilineo. Procedere innanzi, sempre innanzi è la parola d’ordine della téchne, della legge dell’utile e del profitto che scandisce le opere e i giorni della nostra quotidianità sociale. Produci, consuma, crepa: ma non chiederti perché. È superfluo.
Ma è proprio sul territorio del “superfluo” che si gioca la partita della philo-sophia, nella sua veste pratica ed esistenziale. La filosofia, oggi a maggior ragione di ieri, non serve a niente. Fa domande, chiede perché. Pone questioni di senso e significato. Crea disagio, imbarazza, perché non serve ad anestetizzare, né ad intrattenere. Non cura, perché non “oggettivizza” l’uomo. Gli lascia la terribile dignità e responsabilità d’esser soggetto che si prende cura di sé.
In questo orizzonte, il cerchio rappresenta un codice di geometria esistenziale che varrebbe la pena riscoprire. Dal circolo nulla resta escluso. Ogni punto è equidistante dal centro. È conchiuso, eppure la sua percorribilità appare infinita. Si “svolge” eppure ritorna su se stesso.
Se il tempo fosse circolare, come lo concepivano e lo vivevano gli antichi, non ci sarebbe alcun “al di là” a turbare i nostri sogni, nessun fine da realizzare, niente di ulteriore che non sia già qui. Ma il tempo non “è” un dato in sé, non sta da nessuna parte: è la nostra visione, siamo noi gli “abitatori del tempo”. Se non pensassimo di “perdere tempo” o di dover “impiegare il nostro tempo” per conseguire questo o quello, l’illusione metallica della téchne, col suo “tempo spazializzato”, di colpo svanirebbe come fanno i sogni al risveglio. Tutto è perfetto, in ogni momento, perché dall’attimo occhieggia l’eternità, perché ciò che non si stende in avanti, precipita in fondo, è assorbito dall’acquosità insondabile del Tutto.
È opinione comune che la dimensione del “mistico” si collochi in un al di là inarrivabile alla maggior parte di noi, in una sorta di regno fatato in cui si trastullano santi monaci e matti da legare. Eppure, a ben guardare, è qui, è sempre stato davanti ai nostri occhi. È nel presente. E se provassimo a mettere a tacere per un po’ la nostra filodiffusione mentale, finiremmo col prestargli ascolto. Ma parliamo troppo – io per primo – e abbiamo dimenticato come si ascolta. Chi non sa ascoltare non sa dialogare. Non si connette, non si “volge in giro”, va per la tangente. E la sfericità del Tutto non ammette scorciatoie.
In tutte le tradizioni filosofiche e religiose del mondo, da Montecassino a Delfi, da Lhasa a Kyoto, la pratica della “con-centrazione” sul momento presente, l’unica realtà alla quale abbiamo accesso, è sinonimo di “perfezione”. La sensazione che l’accompagna, per via di metafora, è quella dello scorrere dalla superficie della sfera al suo centro, muoversi nell’immobilità, assistere al roteare del Tutto da una posizione privilegiata. Appetire il centro di gravità del nostro essere.
È lo stato di grazia del sentirsi tutt’uno con quello che si è e che si fa qui ed ora. Friggi l’uovo se stai friggendo l’uovo. Ama se stai amando. Ascolta se qualcuno ti sta parlando. Tutto qui.
Se il tempo è circolare, come canta Zarathustra, tutto quello che stiamo vivendo ora, lo abbiamo già vissuto e tornerà in eterno sempre identico a se stesso. Non abbiamo alcun peccato originale da espiare, nessuna meta da raggiungere, salvo l’essere presenti a noi stessi. Torniamo ad essere innocenti come bambini, creativi coi colori che abbiamo dentro, puri con tutto il nostro bagaglio di ricordi, quieti con il nostro travaglio.
L’ipotesi di un tempo esistenziale ad anello, ad esempio, ci costringerebbe a ripensare – in sede di analisi autobiografica – la comune nozione di “senso di colpa” relativa al nostro passato, o di “ansia di prestazione” volta al futuro. Passato e futuro – ci suggerisce la splendida metafora della porta-attimo in Così parlò Zarathustra. Della visione e dell’enigma – sono due strade che si dipartono in direzioni diverse dallo stesso punto e che nello stesso punto s’incontrano: “Ma chi andasse avanti per una di queste strade e sempre avanti e sempre più lontano -, credi tu, o nano, che queste strade si contraddirebbero eternamente? Tutto ciò che è diritto mente, mormorò sprezzante il nano. Ogni verità è curva; il tempo stesso è un cerchio.”
Amare il proprio destino rendendo lode all’inviolato. Abbandonarsi e lasciarsi condurre in giro. Il resto è sogno che dobbiamo imparare ad osservare con benignità.

Autore:

Ho studiato filosofia presso l'Università degli Studi di Roma “La Sapienza” e mi sono laureato nel 1990, relatore il prof. Gabriele Giannantoni, con una tesi in storia della filosofia antica intitolata "Vivere significa morire: analisi di alcuni frammenti eraclitei". Sono socio della SFI - Società Filosofica Italiana di cui curo il sito web. Da alcuni anni mi interesso di Pratiche Filosofiche e Consulenza Filosofica, collaborando con riviste scientifiche del settore, sulle quali ho all'attivo decine di pubblicazioni. Dal 2004 svolgo la professione di Consulente Filosofico e ho promosso una serie di iniziative filosofiche (Caffè Philo, Dialogo Socratico, Seminari di gruppo) aperte al pubblico. Attualmente insegno filosofia e storia presso il Liceo "I. Vian" di Bracciano (Liceo Classico sezione X). Utilizzo la filosofia in pratica sia durante le lezioni ordinarie che in altre "straordinarie" occasioni (passeggiate filosofiche nel bosco, dialoghi socratici a tema, ecc.). A scuola provo a tener aperto uno "sportello" di consulenza filosofica rivolto ai grandi ed ai meno grandi.

6 pensieri riguardo “IL CERCHIO COME METAFORA ESISTENZIALE

  1. Grazie…stavo cercando un’ispirazione nel web e voi mi avete aiutato. Sto costituendo un Circolo il cui nome sarà formato dalla parola CERCHIO…
    Un abbraccio di sole
    Shiafi

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  2. Gentile Prof. Dipalo,
    vorrei suggerirle di andare a Cittareale di Rieti, il 18 luglio ci sarà
    l’inaugurazione del piccolo museo dedicato al vicus Phalacrinae, di cui Lei porta una radice etimologica in comune, e all’imperatore Vespasiano. Ma soprattutto, se andrà, osservi con attenzione i monti a nord di Cittareale. Poi , nei prossimi giorni Le invierò un articolo che verrà pubblicato alla fine di luglio e se vorrà ne parleremo.
    Ho notato alcune analogie con il suo articolo: Il cerchio come metafora esistenziale.

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  3. Un saluto a tutti.
    Credo ci sia un preciso riscontro etimologico e topografico su questo tema,
    proprio nel territorio Reatino.
    A breve finirò un articolo che svelerà l’arcano!
    A presto!

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