Pubblicato in: filosofia, pratica filosofica

SPINOZA, Etica, parte IV, Appendice con commento


HUMANAS ACTIONES non ridere nec lugere neque detestari sed intelligere

(Tractatus politicus, I, 4)

Baruch Spinoza (1632-1677)

Ethica more geometrico demonstrata. Completata, presumibilmente, nel 1662 pubblicata postuma nel 1677.

Suddivisione dell’opera:

Pars I – De Deo (Intorno a Dio)

Pars II – De natura et origine mentis (Sulla natura e sull’origine della mente)

Pars III – De origine et natura affectuum (Sull’origine e sulla natura degli affetti)

Pars IV – De servitute humana seu de affectuum viribus (Sulla servitù umana ovvero sulla forza degli affetti ovvero moti dell’animo ovvero passioni)

Pars V – De potentia intellectus seu de libertate humana (Sulla potenza dell’intelletto ovvero della libertà umana)

SPINOZA, Etica, parte IV, Appendice

I. Tutte le nostre tensioni (conatus) o desideri (cupiditates) derivano dalla necessità della nostra natura in modo tale da essere intelligibili mediante essa sola in quanto loro prima causa, ovvero in quanto siamo una parte della natura che non si può concepire per sé indipendentemente dagli altri individui.

Affetto (adfectus) = moto dell’animo (di cui si può non essere o essere consapevoli: «Un affetto, che è una passione, cessa di essere passione non appena ce ne formiamo un’idea chiara e distinta», prop. III, parte V).

Tensione (conatus) = moto dell’animo di origine “endogena” (senza consapevolezza di sé: per esempio il conato del neonato verso la mamma).

Desiderio (cupiditas) = tensione accompagnata dalla coscienza di sé, volta al mantenimento o all’accrescimento della propria potenza vitale secondo natura (vedi volontà di potenza nietzschiana). La sua dimensione è, modernamente, “psico-fisica” (S. supera la contrapposizione corporeità-mente, res cogitans-res extensa, presente in Cartesio, in linea con la tradizione di pensiero platonico-cristiana).

Gioia (laetitia) = sensazione che accompagna il passaggio da uno stato di minore ad uno stato di maggiore perfezione.

Tristezza (tristitia) = sensazione che accompagna il passaggio da uno stato di maggiore ad uno stato di minore perfezione (una sorta di “emorragia di vita”).

Amore (amor) = letizia accompagnata dall’idea di una cosa esterna (ovvero riconoscimento che qualcosa/qualcuno ha contribuito al proprio accrescimento di potenza/perfezione).

Odio (odium) = tristezza accompagnata dall’idea di una cosa esterna (ovvero riconoscimento che qualcosa/qualcuno ha contribuito alla propria diminuzione di potenza/perfezione).

Tutte le “passioni umane” (affetti, tensioni, desideri) sono assolutamente naturali, ovvero rientrano a pieno titolo nel dominio necessario della Natura e sono “intellegibili” (comprensibili e spiegabili razionalmente) attraverso le leggi di Natura.

Esiste un’unica sostanza (monismo), ovvero il Tutt’uno che chiamiamo Dio o Natura (Deus sive Natura). Mente e materia sono due degli infiniti attributi della Sostanza (ovvero due diverse modalità di manifestazione del Dio-Natura). L’unica, eterna, sostanza – il cui “funzionamento” è spiegabile unicamente attraverso cause efficienti, ossia le leggi di natura – si articola in una infinità di modi transeunti (le diverse, impermanenti, manifestazioni particolari/individuali del Dio-Natura: ad es. questa o quella persona, questa o quella pianta, animale, ecc.).

“Un libro forgiato all’inferno” frutto della mente perversa de “el triste Judio de Amsterdam”. Ecco le ragioni dello scandalo che portarono alla condanna e alla maledizione di Spinoza e della sua opera:

  1. Non esiste un Dio personale, come nelle religioni del Libro, ma Dio è la Natura e noi ne siamo parte (il che prelude ad una concezione panteista).
  2. Ella sola, la Natura, è libera, nel senso che si autodetermina in base a leggi razionalmente spiegabili. Noi esseri umani siamo determinati, causati da una serie di eventi di cui ci sfugge il senso ultimo.
  3. Tale concezione nega la Provvidenza: non c’è alcun disegno divino che favorisca l’uomo in seno alla Natura (compresa l’immortalità dell’anima individuale).
  4. L’intera Natura (sia quella esterna, sia quella interna – passioni, emozioni, corpo, mente) è fine a se stessa. L’uomo non è guidato da alcun finalismo a parte, la Natura non è “fatta” per lui. Nessuna centralità dell’uomo nel mondo (l’uomo non è vicere di Dio come aveva affermato Bacone).
  5. La Bibbia non ha alcun valore come Rivelazione. Spinoza è stato il primo a mostrare il carattere storico della Bibbia. La Bibbia è costruita in base alle emozioni e all’immaginazione del popolo ebraico in determinate epoche storiche. È testimonianza, dunque, di vicende storiche cui l’immaginazione più o meno ispirata ha dato voce. I profeti erano persone che, esacerbate dalle sconfitte di Israele, esprimevano la maledizione verso i nemici e la speranza di una terra promessa.
  6. L’Etica, lucrezianamente, distrugge la radice stessa delle religioni. Essa si basa sulla paura e sulla speranza. Non si distingue sostanzialmente dalla superstizione. Salvo, come ebbe a dire Freud, che «la superstizione è una religione privata, mentre la religione è una superstizione pubblica».
  7. Inoltre, come afferma Remo Bodei: «Spinoza è problematico e scandaloso perché ha detto: noi non desideriamo una cosa perché è buona, ma una cosa è buona perché noi la desideriamo. Quindi sono i nostri desideri, i desideri di quest’uomo come animale desiderante, che stabiliscono ciò che è bene».

Se ciascun individuo/modo – umano o extraumano – è parte del Tutto naturale e divino, la sua essenza consiste nella relazione e nell’interdipendenza. La parte non si dà che attraverso la sua connessione con il Tutto. Declinata in senso sociale e politico questa nozione metafisica comporta la naturale tendenza dell’uomo alla socievolezza e alla costruzione di organismi politici complessi. Le “buone” relazioni coronate da successo – quelle umanamente più utili, ovvero basate su una reciprocità intelligente e simpatetica – sono la principale causa dell’accrescimento della nostra potenza/perfezione individuale (vale a dire: “l’unione fa la forza”). Esse producono letizia, benessere, senso di sicurezza.

II. I desideri (cupiditates) che derivano dalla nostra natura così da essere intelligibili mediante essa sola sono quelli che si riferiscono alla mente in quanto questa si concepisce costituita di idee adeguate (ideis adaequatis); mentre tutti gli altri desideri non si riferiscono alla mente se non in quanto concepisce le cose inadeguatamente, e la cui forza si deve definire in base non alla potenza umana, ma a quella di cose che sono fuori di noi; e perciò quelle si chiamano giustamente azioni (actiones), queste invece passioni (passiones); quelle infatti rivelano sempre la nostra potenza (potentiam), mentre queste rivelano al contrario la nostra impotenza (impotentiam) e la nostra conoscenza frammentaria (mutilatam cognitionem).

In questo paragrafo è espresso il cuore dell’etica spinoziana, intesa come cammino di crescita spirituale, di ricerca della felicità. Non vi è nessuna contrapposizione tra desideri e intelletto. Semplicemente si possono dare desideri adeguati, ovvero naturalmente conformi alla specifica situazione in cui l’individuo viene a trovarsi e, dunque, basati su una adeguata comprensione degli stessi, realisticamente in rapporto alla propria capacità di agire/potenza (es. ho sete, sono nella condizione di attingere dell’acqua, dunque bevo); e desideri inadeguati, intesi in maniera non appropriata, perché falsamente creduti alla nostra portata, ma la cui realizzazione, in realtà soggiace a fattori esterni ed è, dunque, al di fuori della nostra potenza realizzativa (es. desidero una donna/un uomo che non mi corrisponde, vado pertanto incontro a frustrazione, delusione).

Nel primo caso, parleremo di azioni come espressione razionalmente adeguata e consapevole di un nostro impulso naturale, destinate all’accrescimento della nostra potenza individuale e, quindi, accompagnate da letizia. Nel secondo caso, si parlerà di passioni, cartina di tornasole della nostra impotenza, in quanto basate su una conoscenza mutila, incompleta. Esse producono tristizia.

Quando agiamo, siamo (e ci sentiamo) liberi; quando “patiamo”, siamo (e ci sentiamo) impediti, costretti.

Da notare la fondamentale connotazione intellettualistica dell’etica spinoziana: azione, potenza, libertà derivano da (e si accompagnano con) un retto intendimento (ovvero da un desiderio divenuto pienamente consapevole e dunque accolto in quanto adeguato); passione, impotenza, schiavitù derivano da ignoranza e scarsa consapevolezza. Il desiderio è di per sé amorale, ovvero espressione dell’ordine naturale delle cose.

In ultima istanza, non si tratta di “reprimere”, “mortificare”, “controllare” i propri desideri. Ma semplicemente di riconoscerne l’adeguatezza rispetto al contesto di cui siamo parte integrante. Progredire in questa direzione è realizzarsi in quanto essere umano: animale razionale, nel senso di “animale comprensivo”, in grado di “cogliere la visione d’insieme” (cum-prehendere, “abbracciare insieme”), potenziandosi col trascendere il proprio egocentrismo.

III. Le nostre azioni, cioè quei desideri che si definiscono in base alla potenza ossia alla ragione dell’uomo (quae hominis potentia seu ratione definiuntur), sono sempre buoni, mentre gli altri possono essere tanto buoni, quanto cattivi.

L’agire conformemente alla propria natura e in armonia con la rete di relazioni di cui facciamo parte – a cominciare da quelle sociali e politiche (in Spinoza etica e politica sono strettamente collegate) – definisce ciò che si dice “buono”. Non si agisce “a fin di bene” a prescindere da o in contrapposizione ai propri desideri o pulsioni, come vorrebbero le morali eteronome fondate sulla/e Rivelazione/i. Il desiderio adeguato alla potenza e alla ragione umana è di per sé “buono”. D’altro canto, i desideri la cui realizzazione è affidata all’alea di fattori esterni (per es. l’altrui volontà) o che, peggio ancora, si rivelano irrazionali cioè contrari alle leggi di Natura (per es. voler ringiovanire) possono essere tanto buoni quanto cattivi nel primo caso, oppure decisamente cattivi nel secondo. La loro mancata comprensione e ri-armonizzazione rispetto alle proprie effettive potenzialità non può che produrre una diminuzione di potenza/perfezione che si esprime attraverso un sentimento di tristezza, di odio/rancore (quando si associa tale tristezza ad una causa esterna presente) o di paura/disperazione (quando tale sentimento si proietta nel futuro come attesa di un danno). Anche la “speranza” interpretata come attesa di un bene continuamente rimandato in un futuro remoto ed improbabile (per es. “il regno dei cieli”) produce diminuzione di potenza. Non a caso, la religione, intesa come strumento politico, agisce proprio sulla sollecitazione e manipolazione di timore e speranza nei più (al fine di depotenziarne i conati espansivi).

IV. Nella vita è perciò utile prima di tutto condurre a perfezione, per quanto possiamo, l’intelletto ossia la ragione, e in ciò consiste la più alta felicità, o beatitudine, dell’uomo; poiché la beatitudine non è altro che l’appagamento dell’animo originato dalla conoscenza intuitiva di Dio (quippe beatitudo nihil aliud est quam ipsa animi acquiescentia quae ex Dei intuitiva cognitione oritur). Ora condurre a perfezione l’intelletto non è altro che avere intelligenza di Dio, e degli attributi e azioni di Dio. Perciò il fine ultimo dell’uomo guidato da ragione, ossia il desiderio supremo, con il quale si studia di controllare tutti gli altri (summa cupiditas qua reliquas omnes moderari studet), è quello da cui è portato a concepire adeguatamente se stesso e tutte le cose che possono essere colte dalla sua intelligenza.

Se al passaggio da uno stato di minore ad uno di maggiore perfezione del proprio essere si associa un sentimento di letizia (prodotto dalla soddisfazione di un desiderio), ebbene, la massima felicità per l’essere umano, animal rationalis, consiste nell’appagamento della propria vocazione alla conoscenza. S. distingue tre diversi “gradini” della conoscenza: il primo, quello cui si fermano i più, è l’immaginazione che si forma a partire da percezioni particolari e confuse e produce, al massimo, opinioni più o meno adeguate (un’opinione è una conoscenza di cui non si sa ben rendere conto); il secondo è la ragione analitica e corrisponde ad idee adeguate delle cose per passaggi argomentativi mediati; il terzo l’intuizione che procede immediatamente dall’idea adeguata di Dio, ovvero che coglie in un unico atto conoscitivo sintetico l’insieme delle relazioni che legano tutte le cose con il Tutto. A quest’ultima forma di conoscenza corrisponde la beatitudine (che non è premio alla virtù, bensì è la virtù stessa nel qui e nell’ora). Attenzione: il sapere di cui parla S. non ha alcuna connotazione mistica o fideistica. Lo si può e lo si deve intendere, diremmo oggi, in maniera assolutamente laica. “Intuire” significa riuscire ad “entrare e a vedere dentro” (in-tueri) l’essenza interrelata del reale, provare a vedere le cose dal punto di vista del Dio-Natura, ovvero del Tutto.

È questa la somma cupiditas, nella quale il sapiente studia (nel senso latino del termine: “desidera”, “ambisce”) di far rientrare, moderandoli ed armonizzandoli, tutti gli altri desideri. Anche nella teoria degli affetti spinoziana, dunque, si auspica il dominio della ragione, ma essa non è contrappositiva rispetto alle emozioni. Essa consiste piuttosto nello sviluppo ai più alti livelli degli “affetti attivi” (moti dell’animo accompagnati da consapevolezza). Spinoza: ovvero delle “passioni intelligenti” (dunque non più “patite” o “passivizzanti”) o della “ragione appassionata”.

V. Non c’è vita razionale senza intelligenza, e le cose sono buone solo nella misura in cui aiutano l’uomo a fruire della vita della mente, che è definita dall’intelligenza. Chiamiamo invece cattive solo quelle cose che impediscono all’uomo di perfezionare la sua ragione e di godere della vita razionale.

Se il massimo desiderio dell’umano consiste nella conoscenza, ossia nello sviluppo e nella “fruizione della vita psichica”, allora la nozione di “buono” e di “cattivo” dovranno essere misurate, soppesate (razionalizzate) in base alla loro utilità, adeguatezza, funzionalità ai fini conoscitivi. La conoscenza libera, l’ignoranza ostacola. Nel quadro panteistico-monistico di S. libertà è realizzazione della necessità, nel senso che libertà è realizzazione della mia natura individuale in seno al Dio-Natura. Il Tutto, in quanto tale, è “autonomo”, ossia autodetermina le leggi del suo funzionamento, mentre la parte, il singolo transitorio fenomeno naturale (modo), è da esso necessitato. La “parte” uomo ha il privilegio di poter aspirare ad avvicinarsi attraverso la conoscenza al “punto di vista di Dio” (quello dell’uomo di scienza, diremmo noi laicamente). Così facendo, e accettando il proprio essere necessitato in quanto frammento infinitesimale del sistema-natura, egli guadagna la sua libertà. È una specie di riproposizione in termini moderni e scientifici (cartesiani) del motto senecano “ducunt volentem fata, nolentem trahunt”, dove il “volente” vuole quel che vogliono i fati perché ne intuisce la razionalità, al contrario del “nolente”, condannato dalla sua ignoranza ad essere trascinato via.

L’esperienza ci insegna che ai livelli più alti della conoscenza razionale accedono, generalmente poche persone. All’intuizione, quella che S. chiama “amor Dei intellectualis”, una minoranza ancor più ristretta. In questo il nostro si dimostra realista. I più tra noi rimangono prigionieri del mondo dell’immaginazione, incatenati nella caverna di Platone. Ma vale comunque la pena provarci (e chi è vocato alla filosofia non può fare a meno di provarci), come ci ricorda S. nella chiusa dell’Etica: «Ora, se la via che ho mostrato condurre a questa condizione di Letizia inalterabile sembra difficilissima, essa però può essere percorsa. Certo deve essere difficile ciò che si vede conseguito così di rado. Se la Salvezza fosse a portata di mano e potesse esser trovata senza una grande fatica, è mai possibile che quasi tutti gli umani rinunciassero a cercarla? Il fatto è che tutte le cose eccellenti sono tanto difficili quanto rare».

VI. Ma poiché tutte le cose di cui l’uomo è causa efficiente sono necessariamente buone, nulla di male può venire all’uomo se non da cause esterne; ovvero, in quanto è parte della natura intera, alle cui leggi la natura umana è costretta a ubbidire, ed ai cui modi infiniti si può quasi adeguare.

Cosa sono le “cause esterne”? Se per uomo qui s’intende il singolo, cause esterne possono essere gli altri uomini con cui entra in contatto o altri elementi naturali. Potremmo parlare, in generale, di “ambiente sociale (o naturale)”. L’ambiente costituisce il limite, nonché il termine di confronto verso cui si dirigono (e si scontrano) gli impulsi e i desideri individuali. Con “male” si potrebbe intendere quindi il limite naturale al soddisfacimento di tali desideri. Ora, tale limite si sposta tanto più in là quanto più la nostra intelligenza è in grado di riconoscere il funzionamento delle leggi di natura e di accettarle in quanto tali. Nel far ciò, espandiamo il nostro raggio d’azione (diminuendo, di contro, quello di “passione”). Tuttavia, il limite in quanto tendente all’infinito (di contro alla nostra natura finita) è in sé ineliminabile. Da notare quel “quasi”, ci “si può quasi adeguare”. Anche al più sapiente degli uomini la completezza del bene divino sfugge.

VII. E non è possibile che l’uomo non faccia parte della natura e non segua il suo ordine comune; ma se si troverà fra individui che si accordino con la sua natura di uomo, con ciò stesso la sua umana potenza d’agire sarà coadiuvata e favorita. Ma se invece sarà fra individui che non si accordano per nulla con la sua natura, ben difficilmente potrà accomunarsi ad essi senza una grande trasformazione di sé.

Il paragrafo, per chi conosca la biografia del nostro, ha un sapore decisamente autobiografico. Espulso dalla comunità giudaica di Amsterdam, tramite cherem (anatema), dopo aver subito varie aggressioni nonché un tentativo di omicidio, visse nascostamente. Non potendo cambiare i suoi interlocutori – la famiglia, i correligionari – dovette lavorare molto su se stesso per potersi ritagliare un posto, piuttosto appartato e di basso profilo (come molatore di lenti) nella società olandese del tempo.

Dall’etica alla politica: in solitudine si può a malapena sopravvivere, l’uomo è fondamentalmente un animale sociale (contra Hobbes). Il suo “conato alla socialità” è strettamente connesso con la sua natura linguistica-razionale. Ciò che ci procura gioia in sommo grado, ovvero il “godere delle cose della mente”, è strettamente connesso al soddisfacimento del bisogno di socialità che contraddistingue la nostra umanità. La conoscenza è sempre in dialogo con l’Altro. La sua essenza è relazionale. Dunque, nella teoria e nella prassi politica si tratta di trovare e realizzare il sistema di convivenza più idoneo, compatibilmente alle circostanze storiche e culturali, affinché tale capitale bisogno possa esprimersi nella maniera più piena e ricca possibile. Condizione essenziale, secondo S., è la libertà di pensiero, ovvero di ricerca scientifica e filosofica, di dialogo, di espressione in pubblico, nonché la libertà religiosa. Libertà, in ultima istanza, è la cifra della filosofia spinoziana: libertà dalle passioni, di pensiero e di professione religiosa sono facce della stessa medaglia.

VIII. Qualunque cosa si dia in natura che giudichiamo cattiva o che riteniamo ci possa impedire di esistere e di godere della vita razionale, ci è lecito allontanarla da noi per la via che ci pare più sicura, e ci è invece lecito appropriarci e fare uso in qualunque modo di qualunque cosa si dia che giudichiamo buona, ovvero utile alla conservazione del nostro essere a al godimento della vita razionale (quod judicamus bonum sive utile esse ad nostrum esse conservandum et vita rationali fruendum); e in senso assoluto è lecito a ciascuno, per diritto supremo di natura, fare ciò che giudica confacente alla sua utilità (quod ad ipsius utilitatem conferre judicat).

Questo, dunque, è il criterio che occorre consapevolmente assumere a guida della propria condotta morale: “buono” significa, laicamente, utile a conservarsi in vita – il darwiniano istinto alla sopravvivenza, nonché a godere della propria razionalità in espansione. Il fondamentale diritto alla vita nell’uomo si declina in un crescendo evolutivo-espansivo sino al diritto alla conoscenza, alla libera coltivazione ed espressione delle proprie prerogative artistiche, scientifiche e culturali, alla ricerca della felicità, intesa come piena realizzazione del proprio equilibrio psico-fisico-morale. Una specie di elogio ante litteram della libertà di ricerca e di insegnamento fissati negli artt. 33 e 34 della nostra Costituzione.

IX. Nulla sembra accordarsi di più con la natura di una cosa, che gli altri individui della stessa specie; e perciò (per il capitolo 7) nulla si dà per l’uomo di più utile per conservare il suo essere e per usufruire della vita razionale, dell’uomo guidato dalla ragione. Inoltre, poiché nulla conosciamo tra le cose singole che più valga dell’uomo guidato dalla ragione, in nulla uno può mostrare il proprio valore d’abilità e d’ingegno, più che nell’educare gli uomini in modo tale che finalmente vivano sotto il dominio della propria ragione (nulla ergo re magis potest unusquisque ostendere quantum arte et ingenio valeat quam in hominibus ita educandis ut tandem ex proprio rationis imperio vivant).

L’educazione alla razionalità è fondamentale per la felicità e il benessere comuni ed individuali. (S. indubbiamente anticipa i temi-chiave dell’Illuminismo settecentesco). Ergo, libertà, razionalità e conoscenza procedono di pari passo. Questo è (o dovrebbe essere) l’imperativo categorico dell’istituzione scolastica di ogni ordine e grado. Educare ancor prima di istruire, ovvero insegnare ai cittadini di domani a prendersi adeguatamente cura di se stessi, della comunità e dell’ambiente in dialogo con gli altri. Il che, significa, come vedremo, educazione “sentimentale”, ovvero imparare a trasformare le “emozioni” in “sentimenti”. Il cuore dell’educazione consiste nello sviluppo di tale “facoltà empatica”.

X. Gli uomini, in quanto sono trascinati l’uno contro l’altro da invidia o da qualche moto di odio, sono tra loro avversi, e di conseguenza tanto più temibili, quanto più il loro potere supera quello di tutti gli altri individui della natura.

XI. Gli animi tuttavia non si conquistano con le armi, ma con l’amore e la generosità.

XII. Agli uomini è in primo luogo utile stabilire relazioni e collegarsi tra loro con quei vincoli che più sono adatti a unirli in un solo tutto e, in senso assoluto, a fare ciò che giova a consolidare le amicizie.

XIII. Ma per questo si richiedono abilità e vigilanza. Poiché gli uomini sono mutevoli (rari sono, in effetti, quelli che vivono secondo quel che prescrive la ragione), e tuttavia per lo più invidiosi e inclini più alla vendetta che alla misericordia. C’è dunque bisogno di una particolare forza d’animo per sopportare chiunque a seconda del suo carattere, e trattenersi dall’imitare gli altrui moti dell’animo (Unumquemque igitur ex ipsius ingenio ferre et sese continere ne eorum affectus imitetur, singularis animi potentiae opus est). Quelli però che son capaci di rimproverare gli uomini e di deplorare i vizi piuttosto che insegnare le virtù, e non di rinforzare, ma di fiaccare gli animi umani, sono fastidiosi a sé e agli altri; per cui molti, per troppa insofferenza e per un falso zelo religioso, preferiscono vivere tra le bestie piuttosto che tra gli uomini; come dei ragazzi, o degli adolescenti, che non riescono a sopportare con animo sereno le rampogne dei genitori e scappano a fare i militari; e scelgono i disagi della guerra e il dominio tirannico piuttosto che le comodità della casa e le paternali, lasciandosi addossare qualunque fardello sia loro imposto pur di punire i genitori.

XIV. Dunque, sebbene gli uomini regolino per lo più ogni cosa secondo i loro istinti, dalla comune società con loro provengono molti più vantaggi che danni. Perciò è meglio sopportare con animo sereno le loro offese e impegnarsi in ciò che serve a conciliare la concordia e l’amicizia (Quare satius est eorum injurias aequo animo ferre et studium iis adhibere quae concordiae et amicitiae conciliandae inserviunt).

Come mostra il neuroscienziato Antonio Damasio, in un testo del 2003 (Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello), nel sistema mente-corpo si danno due diversi livelli di percezione degli affetti. Il primo, quello “emozionale”, basato su meccanismi di reazione chimica ad impulsi endogeni o esogeni, che condividiamo con gli altri animali; il secondo, quello “sentimentale”, che consiste nel riconoscimento di tali affetti/impulsi, con la creazione a livello neuronale di una mappa corporea consapevole di tale emozione. Tale “mappa corporea”, di fatto “interattiva” – il sentimento può modificare l’emozione corporea e, viceversa, una data emozione può attivare un sentimento equivalente – può essere implementata per mezzo di livelli ulteriori di consapevolezza, collegati allo sviluppo del pensiero simbolico. Su questa distinzione fondamentale tra “emozione” e “sentimento”, che Damasio tratteggia e dimostra in termini scientifici, ma che S. aveva ben chiara in termini filosofici, si regge la veridicità teoretica e la possibilità pratica dell’etica spinoziana.

Gli affetti (ovvero le emozioni), in quanto tali, sono incoercibili, incancellabili. La natura non può essere dominata, interpolata (di contro all’uomo camaleonte del Rinascimento, vedi per es. Pico della Mirandola). La ragione, dunque, non è una forza “distruttiva” delle passioni, la facoltà del “vade retro”. Qualsiasi combattimento frontale tra ragione e passioni porta alla sconfitta della prima (erroneamente intesa come qualcosa di a se stante e di contrapposto alle passioni). Prima che animal rationalis, l’uomo è animal desiderans, senza che tra le due definizioni vi sia reale contraddizione.

Se per “ragione” intendiamo l’investimento di energie conoscitive volte alla soppressione, al controllo o alla manipolazione delle emozioni, ebbene, finiamo inevitabilmente col produrre un “conato”, un “impulso desiderativo” privo di senso e di reale efficacia. Perdita di potenza.

“Ragione” va piuttosto intesa come capacità di chiarificare i processi naturali di cui siamo parte e di pensarsi al loro interno iuxta propria principia (ovvero le leggi di natura). Oltre la ragione analitica (la seconda forma di conoscenza), vi è l’intuizione (o amor Dei intellectualis) che non consiste più nel pensarsi, bensì nel sentirsi, qui ed ora, come particella fluidamente trascorrente del Tutto. Un livello di consapevolezza ulteriore, frutto di passione (vis cognoscendi), in grado di trasformare e convogliare l’energia degli impulsi naturali di base verso quei “sentimenti” positivi, accrescitivi, che rendono la vita degna di essere vissuta. Ma per far questo dobbiamo imparare a comprendere le emozioni così come ci si presentano, ad accettarle, trasformandole pazientemente in sentimenti “panici”. “Travasare” pazientemente e prudentemente l’energia delle “passioni tristi” in quelle gioiose, coltivandole giorno per giorno.

In altre parole, l’“Amore intellettuale di Dio” implica che l’elemento passionale – amor – “sublimato” (per usare un termine freudiano) si accompagni all’elemento conoscitivo, che non è più ratio (calcolo), bensì intellectus (da intelligere, andare dentro le cose “intus” per raccoglierne “legere” il senso che abbiamo penetrato).

Le passioni, pertanto, non si vincono, ma si “scelgono” in funzione della gioia che si connette con la comprensione, sia in rapporto a se stessi (relazione intrapersonale) che in rapporto agli altri (relazione interpersonale), come mostrano chiaramente i paragrafi dal X al XIV. Vanno privilegiate le relazioni che servono a consolidare i rapporti di amicizia e di mutuo soccorso tra gli esseri umani. Sopportare con pazienza le emozioni negative che ci giungono dall’esterno, l’invidia, l’odio, evitare, per quanto è possibile, i “vampiri di energie positive”, i vecchi (e giovani) tromboni moralisti, gli idioti militanti che eleggono le loro “categorie immaginative distorte” a criteri di giudizio universali.

Al di là dell’immaginazione, la ragione cartesiana usa, previa dimostrazione, categorie universali e le mette in contrasto con le singole cose, dunque anche con le singole passioni. Imparare a ben ragionare e ad argomentare in maniera chiara e distinta rappresenta senz’altro un passo in avanti, ma non basta.

L’amore intellettuale, infatti, è caratterizzato dalla relazione immediata con le cosiddette “res singulares”, le cose specifiche, che costituiscono la vera trama del reale. Tale approccio supera l’astrazione delle categorie universali, gettando un ponte tra il tutto e la parte, svelando l’intima connessione del Tutto-uno con le parti (vedi Eraclito: ex pantòn èn, ex enòs pànta, “da tutte le cose l’uno, dall’uno tutte le cose). Giacché, in effetti, non ci si emoziona mai per motivi generali o astratti, ma sempre in riferimento a qualcosa di particolare, ad un contesto specifico, ad un’esperienza che ci colpisce personalmente (è il volto della persona ad emozionarci, non la statistica: la scelta etica è sempre realisticamente ad personam, non ad genus).

La vera conoscenza, dunque, è quella delle cose particolari: bisogna saper “entrare nelle cose”, “stare insieme alle cose”. Questa è la peculiarità della “filosofia-in-pratica”. Essa si serve sì dei concetti generali, ma non li usa per alzare barriere, per catalogare, per emettere sentenze, bensì per provare a cogliere la specificità delle singolarità. Solo mettendosi dal punto di vista del particolare, per es. nei panni dell’Altro, si è davvero in grado di “purgare le emozioni”. È la facoltà che chiamiamo “empatia”, che non ha nulla di mistico o di trascendentale, ma rappresenta il vero ponte tra mente e corpo, tra consapevolezza e sensazione organica, corporea (quella che Machiavelli chiama la “verità effettuale della cosa” in contrasto con la “immaginazione di essa”).

Per approfondire:

  • Antonio Damasio, Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello, Adelphi, Milano 2003
  • Paolo Cristofolini, Spinoza per tutti, Feltrinelli, Milano 1993
  • Remo Bodei, Geometria delle passioni. Paura, speranza, felicità, filosofia e uso politico, Feltrinelli, Milano 2003
  • Filippo Mignini, L’Etica di Spinoza, Carocci, Roma 2002

Dispense per i partecipanti alle Vacanze Filosofiche 2019

Autore:

Ho studiato filosofia presso l'Università degli Studi di Roma “La Sapienza” e mi sono laureato nel 1990, relatore il prof. Gabriele Giannantoni, con una tesi in storia della filosofia antica intitolata "Vivere significa morire: analisi di alcuni frammenti eraclitei". Sono socio della SFI - Società Filosofica Italiana di cui curo il sito web. Da alcuni anni mi interesso di Pratiche Filosofiche e Consulenza Filosofica, collaborando con riviste scientifiche del settore, sulle quali ho all'attivo decine di pubblicazioni. Dal 2004 svolgo la professione di Consulente Filosofico e ho promosso una serie di iniziative filosofiche (Caffè Philo, Dialogo Socratico, Seminari di gruppo) aperte al pubblico. Attualmente insegno filosofia e storia presso il Liceo "I. Vian" di Bracciano (Liceo Classico sezione X). Utilizzo la filosofia in pratica sia durante le lezioni ordinarie che in altre "straordinarie" occasioni (passeggiate filosofiche nel bosco, dialoghi socratici a tema, ecc.). A scuola provo a tener aperto uno "sportello" di consulenza filosofica rivolto ai grandi ed ai meno grandi.

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